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“Bocce rosse”, nessuna bufala

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Le fonti

Le fonti che raccontano l’affronto fatto a Mussolini dall’Amministrazione repubblicana di Fiumana il 15 aprile 1923 sono due ed entrambe molto affidabili: il diario manoscritto di Dario Ercolani e la Gazzetta Ufficiale del 4 settembre 1923.
Dell’autorevolezza di Dario Ercolani testimoniano la sua vita specchiata e la stima generale nei suoi confronti. Funzionario della Prefettura di Forlì, cattolico, rigoroso servitore dello Stato, in età avanzata fu anche Vicesindaco democristiano di Forlì negli anni ’50, a fianco dei sindaci repubblicani Simoncini e Colletto. Così ricorda quel fatto: “Per motivi politici ebbi l’incarico di eseguire un’ispezione straordinaria al Comune di Fiumana, distante soli 5 km da quello di Predappio che aspirava all’ampliamento per motivi di orgoglio quale Patria del Duce. Questi, tra l’altro, aveva ricevuto un affronto dall’Amministrazione repubblicana di Fiumana che, in occasione di una visita del Duce stesso, si eclissò dalla residenza, preferendo darsi al giuoco delle bocce e delle carte, con contorno di merenda e sangiovese, per motivi di antipatie personali e politiche“. Conferma dello sgarbo al capo del Governo giunge l’atto di commissariamento pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 4 settembre 1923 dove si annovera, tra le cause della destituzione della Giunta, anche “l’assenza della maggioranza degli amministratori a recenti cerimonie”.

Il contesto

Il gesto va contestualizzato nel rapporto travagliato che ci fu, nel forlivese, tra fascismo e mondo repubblicano, del quale ha scritto Elio Santarelli in “Cronaca del fascismo nella città del duce”. Ancora a inizio anni Venti, a Forlì e nei Comuni collegati alla città, tra cui Fiumana (che ha sempre orientato le sue dinamiche verso la via Emilia e non verso monte), l’edera raccoglieva una maggioranza molto ampia di consensi. Il leader di quel mondo era Giuseppe Gaudenzi, all’epoca sindaco della città, esponente nazionale del Pri e con un passato in Parlamento. La sua linea fu sempre distante e fredda nei confronti del fascismo, così come era stato tiepido nell’interventismo. Diverso appariva l’approccio della componente più legata all’esperienza della grande guerra e a quella dannunziana di Fiume che sentiva affinità col fascismo, sia per lo “spirito di trincea” che aveva aperto un forte contrasto coi socialisti (ai quali non veniva perdonata la neutralità e, soprattutto, il grido “Viva i disertori” divampato al congresso nazionale del partito), sia per la linea decisamente antimonarchica del futuro “Duce”.

Un gruppo di giovani repubblicani, tra questi alcuni sarebbero diventati capi della Resistenza, fece in quel momento anche il servizio d’ordine a un comizio milanese di Mussolini. Per molti di loro la svolta antifascista arrivò dopo la “marcia su Roma” e seguito del patto tra fascismo col Re. C’erano poi ambienti, come quelli guidati dal sindacalista Armando Casalini, che aderirono direttamente al fascismo. In sostanza i repubblicani si spaccarono. Se fino al 1922, gli attacchi delle camicie nere presero di mira solo socialisti e comunisti, a partire da quell’estate il contrasto coi repubblicani non allineati aumentò e causò le prime vittime, come diversi cooperatori repubblicani uccisi nel luglio durante l’assalto fascista alla Federazione delle cooperative di Ravenna (morti che il Presidente Mattarella ha commemorato l’estate scorsa).

Nel settembre poi una colonna fascista che imperversò lungo la via Emilia attaccando e incendiando case del popolo socialiste e repubblicane. Quindi, il 30 ottobre, due giorni dopo la “marcia su Roma” e l’occupazione della Prefettura di Forlì, i fascisti cacciarono brutalmente il Sindaco Giuseppe Gaudenzi. Al suo posto venne nominato un commissario. A quel punto Gaudenzi dedicò tutte le sue forze a guidare i repubblicani nel fronte antifascista, sia localmente, sia come leader nazionale del Pri. Per reazione, a inizio 1923, i fascisti occuparono una prima volta il Circolo Mazzini. È in questo contesto di fortissima e crescente tensione, alimentata da violenza e paura, che deve essere inquadrata la vicenda delle bocce rosse, dove rosso identifica il colore storico delle bandiere del movimento mazziniano e repubblicano. Altrimenti potrebbe apparire un fatto banale o goliardico.
Quando Mussolini giunse nel territorio della sua infanzia e giovinezza, il 15 aprile 1923 appunto, ufficialmente come Capo del Governo, furono organizzati momenti ufficiali di accoglienza a Forlì e a Predappio (dove gli venne donata la casa in cui era nato nel 1883). A Fiumana non fu degnato di un saluto e il mandato politico venne dal vertice forlivese.

Ancora sangue

L’offensiva fascista ai repubblicani non allineati era solo agli inizi. Violenze e prevaricazioni proseguirono nei mesi seguenti portando a nuove morti. Come quelli del 3 dicembre 1923, a Forlimpopoli, dove i repubblicani Giovanni Artusi e Carlo Roncucci furono uccisi a pugnalate dallo squadrista Anselmo Melandri che, a sua volta, venne freddato a revolverate dal repubblicano Vincenzo Monti. Come pretesto per l’uccisione di Melandri, i fascisti diedero sfogo alla rabbia attaccando le sedi repubblicane e occuparono nuovamente il circolo Mazzini di Forlì che fu trasformato in camera ardente per lo squadrista. Qualche giorno dopo un altro repubblicano, il diciottenne forlivese Giovanni Arfelli, fu ucciso dai fascisti a Porta San Pietro. Il suo funerale venne sospeso per divieto prefettizio; ciononostante prese forma una manifestazione spontanea di donne per protestare contro la violenza ma anche questa venne fermata dalla forza pubblica. Il dileggio definitivo fu la requisizione del Circolo Mazzini che fu utilizzato come Casa del fascio prima del trasferimento di questa nei locali di Palazzo Albertini in Piazza Saffi. Da lì a poco ci sarebbero state le elezioni politiche della primavera 1924 connotate in tutta la penisola da violenza e la cui denuncia costò la vita a Giacomo Matteotti. La deriva proseguì, passando per l’Aventino delle forze antifasciste che abbandonarono il Parlamento, e sfociò nel pugno di ferro mussoliniano con l’avvio delle leggi “fascistissime” che affondarono la pur fragile democrazia del Regno. Questo è il quadro.

Persone e partiti

Ultima annotazione. Dario Ercolani e la Gazzetta Ufficiale parlano sempre dell’amministrazione. Giuseppe Valpiani la guidava ed evidentemente condivise la scelta dell’affronto anche se a distanza di pochi mesi, dopo il periodo retto dal Commissario prefettizio Casanova, si propose tra i candidati della lista unica fascista, tornò amministratore e aderì al fascismo. Anche di questi passaggi ho parlato in modo chiaro il 5 aprile all’incontro organizzato dall’Associazione Articolo 3. Il dato non è quindi stato sottaciuto. Anzi, rappresenta un elemento centrale per comprendere la vicenda. Così come ho spiegato che alcuni componenti di quella amministrazione, Primo Romboli e Vincenzo Balestri, finirono schedati al Casellario Politico Centrale, con tanto di segnalazione sulla carta d’identità, rimanendo formalmente sotto controllo fino al 1929, anno in cui vennero radiati per “buona condotta”. Questa è la strana storia delle bocce rosse. Piccola cosa?

Certamente si. Ma certamente figlia di una logica politica territoriale, tanto, come dimostrano le fonti, da non passare inosservata al “Duce”. È una vicenda che aiuta anche a riflettere sul rischio sempre presente (e a tutte le latitudini politiche) delle derive autoritarie e, per contrappunto, sottolinea l’importanza di costruire relazioni improntate al rispetto. Ci ricorda che prima di tutto siamo persone, che la storia è l’insieme delle vite di uomini e donne, e che ogni tanto, una partita a bocce, con merenda di piadina e sangiovese, può far meglio di logiche che alimentano le divisioni. A proposito della memoria locale, una postilla ancora legata a Giuseppe Valpiani. Penso che la causa del fatto che l’evento delle bocce sia caduto per tanti anni nell’oblio debba essere ricondotta proprio alla difficoltà di rapportarsi con la sua adesione al fascismo. Era certamente difficile da raccontare. Per di più, ricordano persone a lui vicine, quando nel dopoguerra tentò un riavvicinamento al mondo repubblicano, la “zoca” mazziniana fiumanese non lo riaccolse. In paese visse fino alla morte negli anni ’70 e lavorò come sarto, benvoluto e conosciuto come persona perbene.

Mario Proli