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Resilienza, che palle! W la resistenza!

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Se definito empatico o resiliente, la cosa mi induce subito alla scaramanzia di toccar ferro oppure, per maggiore e diretto coinvolgimento personale, darmi una palpatina agli zebedei, non si sa mai! Conosco il significato dei due termini, ma non li sopporto proprio: empatico mi richiama una malattia epatica; resiliente, considerata la sua origine dal verbo latino re + salire (saltare), mi fa sentire un povero Cristo che, pur opponendosi e resistendo, salta senza sosta, rimbalza, sballottato dalle avversità della vita. Due aggettivi insoliti per indicare il possesso di chissà mai che rare qualità, appunto l’empatia e la resilienza, che già per il nome incuriosiscono, sorprendono e, peggio ancora, costringono molti a riconoscere, sotto sotto, una loro ignoranza, sintetizzabile in uno spassionato “ma che cazzo mai vogliono dire?”

Naturalmente, gran parte finge di sapere: nessuno è curioso, né sorpreso, qualcuno, addirittura, sceglie il silenzio sul suo vuoto mentale cosa piffero siano l’empatia o la resilienza. Tanto poi, alla fine, tanti si sono convinti, per prono conformismo, che essere empatico o resiliente debba essere davvero figo, se empatia e resilienza sono tanto alla moda, insomma trendy, nella politica e nei salottini chic, in diversi logorroici, inconcludenti talk show e, persino, nelle cene del “generone romano” o dei nuovi “cumenda” milanesi.
Certo, al posto di empatia sarebbe meglio usare il sinonimo “immedesimazione”, molto più immediato e comprensibile per indicare la capacità di ciascuno a calarsi nei panni altrui; allo stesso modo, meglio resistenza al posto di resilienza per significare il nostro contrasto alle difficoltà.

Purtroppo, non possiamo ignorare il valore salvifico, volutamente attribuito alla parola resilienza nel cosiddetto PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il programma con il quale il nostro governo dovrebbe gestire i fondi europei, utili a risollevare l’Italia dalle pesanti conseguenze della pandemia. Da decisioni governative arrendevoli del mio paese sono costretto dunque, obtorto collo, a riconoscermi “resiliente”, quale cittadino capace o meno di resistere a urti, asprezze della vita senza spezzarsi, rompersi. Ma, benedetto Iddio, così siamo allo stereotipo passivo dell’italiano che si piega, si sottomette e, zitto e mosca, salva il salvabile: le terga! Nessun confronto, nessun paragone con l’italica dignità, anche solo per un giorno, di un ruggito leonino per tentare il tutto per tutto, o la va o la spacca; meglio rischiare di schiantarsi, rompersi i marroni che chinarsi come giunco al vento per passare sotto le forche caudine della Comunità Europea.

Sì, è stata quest’ultima a definire ed imporre all’Italia il significato di resilienza al quale ispirare il proprio PNRR ovvero è la Commissione Europea responsabile di aver stabilito, in modo pressoché unilaterale e perentorio, i criteri di valutazione e validazione del PNRR dell’Italia, come di tutti gli altri paesi membri, fra l’altro sempre secondo un margine di resilienza, variabile da paese a paese perché modulato su diverse necessità politiche, economiche e sociali. In conclusione, la resilienza delle riforme proposte in Italia è di fatto unicamente quella ideata e imposta dall’Europa, spiegandosi così appieno come l’Italia sia, ad esempio, lasciata sola e alla sua resilienza nel contrastare il dramma dei migranti: su questa problematica la resilienza italiana resta vergognosamente esclusa da ogni condivisione fattiva degli altri stati dell’Unione.

Volutamente, tanta è qui la mia ironia irriverente, colorita e provocatoria, anche con un richiamo pungente al “ventennio ruggente”, ma nessuno si allarmi, è solo una freddura, una battuta: so benissimo quanto la dignità di una nazione, partecipe dell’Unione Europea, vada, ormai, ben oltre il colore di una camicia. Invece, ipocritamente non voglio passare oltre sul fatto che le parole abbiano sempre un peso e, spesso, conseguenze che dipendono da chi le ha scelte, dette e imposte; voglio sorprendere contro corrente, più interprete dei miei tempi, sicuramente derogando al mio vocabolario politico e sfidando compagnucci tanto dimentichi di quanto contino le parole: oggi, alla parola resilienza, di scelta europea, tanto flessibile, adattabile, modulabile perché supina, preferisco l’attualità del vocabolo resistenza, certamente di significato più attivo e fermo, testardo a tenere le posizioni.
Resistenza dell’Italia al dirigismo dell’Europa; resistenza italiana ad ogni condizione di vassallaggio, acquiescenza all’Unione Europea; resistenza al condizionamento e al trasformismo europeo della identità nazionale, statuale dell’Italia; resistenza alla tentazione europea di giocarsi la pelle degli italiani, prima ancora di averli messi nel sacco. Anche di questo farei memoria per la prossima ricorrenza del 25 Aprile.

Franco D’Emilio