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Sergio Martini affascina il Panathlon Club Forlì

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Sergio Martini, alpinista di fama internazionale, pur essendo il settimo uomo al mondo capace di scalare tutte le 14 vette superiori agli 8.000 metri, si è raccontato venerdì sera di fronte ai soci del Panathlon Club Forlì con la pacatezza, la modestia e l’umiltà che sono proprie dei grandi personaggi e non ha certo faticato per conquistare la platea.

Sono nato a Rovereto, che si trova a soli 200 metri di altezza sul livello del mare. Più che le montagne – ha esordito Martini rispondendo alla domanda del presidente del Club, Marilena Rosetti – sono stati i boschi il parco giochi della mia fanciullezza. Poi mi è venuta la curiosità di andare in montagna, e la spinta è stata la passione. È inevitabile per me vedere la montagna a 360 gradi (arrampicata, apertura di nuove vie, scalate invernali e tanto altro ancora) per il piacere di godere dell’ambiente, ricompensa per la fatica che un’attività fisica di questo tipo comporta. Faccio solo un esempio: una volta sono rimasto 8 giorni bivaccato in parete prima di raggiungere la vetta! E oggi mi chiedo come sia stato possibile. Ho iniziato da ragazzo a scalare le Dolomiti, in seguito sono andato a cercare le stesse emozioni nel mondo. La mia prima uscita internazionale è stata in Patagonia, una scelta che negli anni Sessanta-Settanta non era affatto comune. Poi mi sono orientato sulle grandi montagne dell’Himalaya“.

Il giornalista Alberto Bortolotti, conduttore della serata, ha chiesto poi a Martini come ci si prepara per affrontare imprese come le sue. “Andare in montagna è una scelta di vita, e per fortuna non ho mai avuto fasi di stallo. La mia preparazione era agli inizi normale. Il passaggio successivo è stato preparare l’organismo ad essere pronto ad affrontare le grandi quote, e questo non è qualcosa che si acquisisce spontaneamente“.

Il tema è poi scivolato sui giovani. “Sono ancora attratti dalla montagna – ha risposto sicuro Martini – si muove verso di essa una quantità straordinaria di giovani, anche se non affrontano le difficoltà tecniche dei miei tempi. Per fortuna, la voglia di andare oltre non finirà mai“. Si è quindi passati ad analizzare l’evoluzione delle nuove attrezzature. “Aiutano, non c’è dubbio, lo si vede anche dall’abbigliamento che avevamo noi negli anni ’70, diversissimo da quello di oggi. Nel 1995, durante una spedizione in Asia, uno svizzero affermò che la temperatura della notte era scesa sino a meno 40! Eppure, la cosa peggiore è il vento. È facile patire un congelamento a dita, naso e orecchie, mentre il fisico subisce, invece, cambiamenti biologici“.

Spazio anche all’alimentazione necessaria nel corso di una scalata. “Nel campo base l’alimentazione è gestita da cuochi. In quota, invece, si fa fatica a mangiare. Labbra e palato subiscono ferite dolorose, si desidera soltanto bere. Bisogna idratarsi sciogliendo la neve, e non è facile. Ma tutte queste cose le sai prima ancora di partire da casa, così come si sa che non tutto può andare per il meglio. Faccio un altro esempio: per raggiungere la vetta di una montagna sono dovuto salire tre volte, a distanza di tempo“.

Ovviamente, non sono mancati gli aneddoti. “Mi è capitato, senza rendermene conto, di battere il record di velocità di una scalata, discesa compresa; me l’hanno comunicato appena rientrato alla base. E pensare che, in realtà, non cercavo una performance, volevo solo bere la Coca Cola che avevo lasciato in tenda!” L’alpinismo è uno sport individuale e, al tempo stesso, di squadra. Come si coniugano tra loro?
In effetti – ha spiegato ancora lo scalatore – è una attività individualista ma allo stesso tempo la fai con altri. Ciò che unisce le due modalità è la corda, che crea un legame fisico ma anche un legame basato sull’aiuto reciproco, che permette di raggiungere un obiettivo.
Sul K2, nel 1983, assieme all’amico Santon siamo arrivati in cima come seconda squadra assoluta; ce l’abbiamo fatta in 4 su 20 ed è stato merito della collaborazione reciproca. Siamo tutti uguali, ciò che fa la differenza è il punto di vista mentale“.

Altra curiosità: Sergio Martini è stato insegnante di educazione fisica nelle scuole medie.  Come si relazionavano con lui i suoi studenti? “I ragazzi quando mi vedevano tornare in classe con ferite evidenti (dita nere per congelamento, bruciature sul volto) rimanevano affascinati, ma questo è normale. Anch’io sono stato da ragazzo affascinato dalla figura di Walter Bonatti, che aveva un linguaggio talmente colto che pareva impossibile fosse un alpinista. Il suo eloquio faceva riflettere“.

Quanto costa una spedizione sull’Himalaya? “Il costo maggiore in Asia è il pedaggio per ottenere la possibilità di salire sulle montagne. Ora sono le agenzie che accolgono le richieste di chi vuole andare, per cui si formano gruppi di persone che non si conoscono. Un tempo andavano solo gli alpinisti, oggi vanno su tutti, anche chi non sa nemmeno mettersi i ramponi! Sono tornato sull’Everest nel 2009, per varie ragioni. Ero stato già due volte in cima, ma purtroppo la prima volta era morto un nostro amico, travolto da una valanga. Insomma, volevo tornare su quella cima anche per questo“.

Ha qualche rimpianto per aver praticato l’alpinismo agonistico? “Chi è preso da questo demone qualcosa perde, anche i rapporti familiari. Però andare in montagna è un arricchimento, se poi hai dei riconoscimenti meglio ancora. A me è capitato di salire in cima a un 8.000, in una situazione limite, difficilissima; chi è andato dopo di noi non ha trovato le nostre tracce e per questo la nostra impresa non è stata riconosciuta. Mi è dispiaciuto davvero molto“.