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La mia Piazza

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Parlare della “Piazza” è come parlare di casa mia, la casa dove sono nato, dove ho passato la mia infanzia e gioventù e dalla quale non ho mai traslocato completamente, magari anche rinunciando a maggiori successi. La Piazza è cambiata, si sente parlare sempre meno il nostro dialetto a favore di altre lingue, molto spesso incomprensibili, ma forse altrettanto calde, è occupata prevalentemente da altri, di colori diversi che sembrano di più solo perché manchiamo noi, che piano piano ce ne siamo andati via, quasi per non disturbare, ma adesso ci lamentiamo. Così come il chiostro, di cui oggi si parla spesso. È “occupato” da altri ragazzi perché non ci sono più quelli della parrocchia, quelli che passavano il tempo libero in attività ludiche ed anche umanitarie organizzate con entusiasmo nei locali della canonica. Non ci sono più? Sono andati da altre parti? Forse si sarebbero potuti integrare con quell’entusiasmo che caratterizza i giovani.

Io sono nato proprio lì, esattamente dietro il palazzo delle Poste, si chiamava via Masini, ora Gaudenzi, ed era pavimentata con i vecchi sassi poi ricoperti da un asfalto impietoso. Mio nonno con la sua famiglia abitava dove ora è la Camera di Commercio. Penso quindi di avere tutti i diritti di dire che la piazza è casa mia e di essere nato all’ombra del campanile di San Mercuriale. Dietro il palazzo delle poste, quattro strade, molto affollate, del resto come oggi.
L’Albergo Roma, contribuiva al movimento del quartiere, gente che andava e veniva, anche habitué che frequentavano a ore, e d’estate il giardinetto di legno con le fioriere di gerani per i tavoli del ristorante, il primo sempre occupato, a pranzo e cena, dal titolare Dario Bartolini con i figli. La “Gambilena”, seduta su una sedia di vimini, sempre con una gamba alzata su uno sgabello, badava le biciclette, tutte in fila appoggiate al muro con il numero di cartone, legato con lo spago al manubrio. I giorni di mercato, anche in doppia fila, e la sera parecchie motociclette che ripartivano circa a mezzanotte, dopo essere state ben scaldate, per la gioia del quartiere, specialmente nei mesi estivi.

Ma il rumore da queste parti è sempre stato sopportato bene, anzi era la colonna sonora.
Ilario Bandini costruiva automobili da corsa dove ora c’è una discoteca. Piccolo, leggermente claudicante, spesso col capo coperto da un berretto, usciva con la sue creature rombanti diffondendo odore di olio bruciato, fumo biancastro e rumore assordante. Il quadrilatero si trasformava tutti i giorni in una pista di collaudo suscitando più entusiasmi che proteste.
Era il quartiere dei “motori”. C’era l’autoscuola, una delle prime, se non proprio la prima, del grande Casanova che dentro la sua “1100 B” grigia insegnava la guida a timidi allievi impauriti ai quali non risparmiava pesanti rimproveri. C’era l’autonoleggio di Miccoli con la vecchia Balilla e le prime Topolino. C’era l’officina concessionaria della “Ducati” di Silimbani, personaggio discreto e riservato che lasciava alla pittoresca moglie l’iniziativa e lei non si tratteneva ad ostentare tutta la sua ricchezza, e guardava la strada con l’intenzione di comperare tutto. Una volta fu vista, aiutata da un dipendente, mentre prendeva la misure di tutte le case.
Dietro l’angolo, il Caffè Roma con il simpatico Perugini che serviva caffè mentre gli avventori ammiravano la sua grande moto parcheggiata vicino ai tavoli.

Vestita di nero come una vedova, che forse non lo era, la Veneranda, seduta sulla bicicletta, con un piede a terra, la ricordo mentre toglieva il quotidiano dalla grande borsa posta sul manubrio, per porgerlo all’acquirente. Partiva la mattina dall’edicola di Porta San Pietro per informare un quarto di Forlì con le sue chiacchiere e notizie così ben commentate, quasi da rendere inutile la lettura del giornale. L’ho sempre vista con il grembiule nero con piccole mani, d’inverno crepate, anch’esse annerite dalla stampa che le correva fra le dita, quasi a volerle entrare dentro per poi essere diffusa dalle sue parole che contribuivano ad una migliore interpretazione. Quando non era stato ancora ricostruito il monumento a Saffi, la grande aiuola di erba e piccoli fiori di stagione ospitava, particolarmente nelle ore serali, intere famiglie che godevano di un momento piacevole al fresco, in compagnia di amici. I bambini giocavano, correvano e gareggiavano faticosamente fra loro a bordo di tre automobiline a pedali rosse e poco lubrificate.

Poche automobili, tante biciclette, ma sopratutto tanti bambini. Sotto la colonna dell’aquila, a lato del Palazzo delle Poste, quella verso gli Uffici Statali, c’era sempre, dalla primavera all’autunno, De Fanti, con il suo fresco carretto dai due grandi coperchi cromati, che preparava al momento la mattonella di gelato ai classici tre gusti di cioccolata, crema e limone. Poi il chiostro di San Mercuriale, ritrovo di ragazzi di tutte le età, allegri e rumorosi, uniti a divertirsi fra le due piazze, Saffi e XX settembre, dove grazie all’asfalto, permetteva ai più spericolati, gare di pattini a rotelle. Un po’ sfumato ma indelebile il ricordo di Don Pippo. Nella grande chiesa con la veste corta alla caviglia, spesso impolverata, così come le scarpe. Per tenere bella la sua chiesa non disdegnava di trasformarsi in muratore, carpentiere, verniciatore o quello che serviva per poi, stanco, andarsi a rigenerare fra gli schiamazzi gioiosi degli amati ragazzi del chiostro.

Si è sempre detto che abbia salvato il campanile dall’abbattimento per mano dei tedeschi, che ormai in ritirata lo avevano minato. Non so se sia vero, ma a tutti noi piace crederlo. Una domenica di novembre, al termine della messa di mezzogiorno, qualcuno si rivolse ai numerosi fedeli dando il triste annuncio, don Pippo si era sentito male e serenamente aveva lasciato il mondo degli uomini che aveva tanto amato. La città si fermò e grande fu il dolore di tutti per la scomparsa di quello che era ritenuto un padre, amato e rispettato anche da chi non frequentava la chiesa, perché era considerato soprattutto un Uomo, un grande Uomo.
Un lungo corteo accompagnò il feretro al Cimitero, non mancava nessuno, e tutte, proprio tutte, le serrande dei negozi furono abbassate in segno di lutto. Fu deciso in seguito che le spoglie di don Pippo dovevano riposare nella Sua Chiesa. Anche questa volta Forlì, partecipò tutta, commossa, per il ritorno del suo Prete. Nessuno prima di allora era mai uscito dal Cimitero. Lui lo fece circondato da tanto amore e da tanti bambini e ragazzi. Anche io ero fra di loro nella schiera dei Chierichetti.

Sicuramente più nitido è il ricordo di don Bruno Bazzoli, abate discreto ma di grande carisma che sapeva anch’egli coinvolgere tanti giovani. È il periodo che maggiormente ho vissuto nel chiostro, eravamo tanti, chierichetti, boy scout, ragazzi e ragazze. La canonica era completamente a nostra disposizione, per le nostre iniziative ludiche e culturali sempre controllate da don Bruno che non si tratteneva dal dare buoni consigli e dal frenare gli eccessi.
Allora si viveva anche il campanile e spesso si vedevano dalla piazza persone affacciate alle grandi finestre e si sentivano quegli schiamazzi di entusiasmo portati via dal vento. Penso che tutti, almeno una volta, dovrebbero salire sul campanile, vedere la città dall’alto e provare il piacere di possederla interamente. Spaziare con l’occhio fino alle colline e verso quella splendida pianura che accompagna l’occhio fino al mare. Ma la piazza per un effetto ottico influenzato dalla poesia e dall’emozione del momento, ci appare in tutto il suo splendore. Il Rialto delizioso nelle sue misurate linee medioevali, la massiccia geometria del Palazzo delle Poste e degli Uffici Statali che fanno da cornice alla Residenza Comunale che pare voglia mettere d’accordo due stili tanto diversi. Nel mezzo Aurelio Saffi che dall’alto pare che cammini sul porfido ordinato verso alcune biciclette ordinate nelle apposite rastrelliere.

La piazza era, allora, il centro commerciale, amministrativo e di riferimento per tutti noi. Le Banche, gli Uffici Statali, la Questura, e la sede della Croce Rossa, “dam una man”, erano l’arredamento del centro. Un salotto dove, in particolare nei mesi estivi, ci si poteva rilassare, nelle ore serali, magari gustando un gelato o una bibita guardando il “nostro campanile”. Non c’erano spettacoli, non erano necessari, la piazza faceva spettacolo da sola, con i suoi protagonisti, distribuiti nei vari locali a seconda delle idee sportive o politiche. Clienti abituali e di passaggio si scontravano in maniera accesa, ma controllata, su gli ultimi argomenti di attualità politica o sportiva, nei principali ritrovi. Il “Flamigni”, il “I° Maggio”, il “Caffè della Borsa”, il “Godoli”, aperti oltre mezzanotte e che erano l’arena di schermaglie amichevoli su tutto quello che veniva in mente.

Spesso sui gradini di San Mercuriale era seduto il “barbiere”, almeno così veniva chiamato, che con la bicicletta appoggiata alle ginocchia, i pantaloni non sempre abbottonati, con in bocca una chiave o l’angolo di un fazzoletto bianco, continuava a ripetere una frase, sempre la stessa, forse l’ultima pronunciata prima che la natura gli giocasse il brutto scherzo di privarlo della ragione. Ci si conosceva tutti, ci si faceva festa e poteva persino capitare di essere “fotografati” da Armandino. Caro e simpatico Armandino, quanto ti abbiamo voluto bene! Personaggio indelebile dei nostri ricordi, sempre elegantissimo, spesso in blù, come voleva la sua mamma, la “Maria del teatro”, famosa fruttivendola che nel negozio di via Mameli che metteva in bella mostra le primizie più invitanti. Lui era sempre presente in piazza a manifestare tutto ciò che poteva esprimere la sua fantasia. Allora sotto il “voltone” del Comune c’era la Questura e nella piazzetta della Misura il Comando dei Vigili Urbani e la sede della Croce Rossa, una specie di cittadella dove Armandino era il protagonista assoluto.

Spesso saliva sull’ambulanza che partiva a sirene spiegate, pronto ad intervenire verbalmente qualora ritenesse di redarguire l’incidentato se riteneva che l’accaduto fosse causato da una imprudenza e non perdeva i più importanti funerali, specie se accompagnati dalla banda, alla quale si univa marciando con perfetto rispetto del tempo. Era al circolo Mazzini dove esprimeva il massimo del suo talento di cronista, “fotografando” con una scatola di cerini, emulando così i grandi reporters. Agli incroci più trafficati, al posto dei semafori, c’erano i vigili urbani che dirigevano il traffico su alte pedane, quelle stesse che venivano ricoperte di regali, indirizzati ai tutori dell’ordine, nel giorno dell’Epifania. Queste erano il vero palcoscenico di Armandino, su di esse dirigeva il traffico con movimenti perfetti, degni di un ufficiale, per poi scendere a distribuire contravvenzioni sui parabrezza, senza risparmiare nessuno.

Poi c’era Galileo, gestore dei gabinetti pubblici, che imprecava sempre contro governo e donne, l’Egiziana, la mendicante vestita di stracci, dall’aspetto poco gradevole, ma dicono fosse ricca e pulitissima, ed una “signora” che, con gonna lunga e camicetta di pizzo, la chiamavano Adalgisa, che “passeggiava” in via Mazzini, specie i giorni di mercato, per offrire il suo piccolo “paradiso” in via Paolo Bonoli.
Seduti al Caffè della Borsa si potevano ascoltare le avventure di Giannetto, che negli anni della guerra era stato il barbiere degli ufficiali dell’aviazione e si vantava di aver rasato più volte il Duce. Avventure semplici che, raccontate con una simpatica balbuzie, facevano spettacolo, con il contorno dei soliti amici dell’Aeroclub.

Al Godoli personaggi più “in”, grandi mediatori e sensali, affaristi importanti per l’economia della città, ma non solo. Insegnante della scuola elementare di via Francesco Nullo, il Maestro Morgantini. Fin dai tempi della scuola, quando ostentava la sua “Motom” elaborata alla “cartapesta” dalla quale scendeva togliendosi quasi ritualmente un vistoso casco rosso, fu sempre un testimonial della passione motoristica che si poteva percepire nella nostra piazza. Quando poté permettersi un’auto non esitò ad ostentare al Bar Godoli una “Topolino C” completamente ricoperta di nastro adesivo colorato cosi come quando, al raggiungimento della pensione, stupì tutti gli avventori del bar con una fiammante “Ford Capri” anch’essa coperta di adesivi. Poi smise di guidare, ma continuò a raggiungere la piazza, dal suo giardino di viale Bolognesi, dove soleva innaffiare i fiori di plastica, sempre elegantemente vestito di bianco accompagnato dalla inseparabile bicicletta che non cavalcava, ma dalla quale cercava l’appoggio.

Fra tutti i personaggi che si potevano incontrare in piazza, magari seduto al Flamigni, quello la cui fama ha varcato i confini cittadini, era Pivir. Il soprannome derivava dall’aspetto che gli conferiva, l’enorme nasone, ma nei mercati era noto come “Aradio”, perchè sempre acceso, non stava mai zitto. Era uno dei più esperti mediatori di cavalli, raccontavano che su un branco di oltre cento capi, poteva, a occhio, sbagliare il peso non più di una decina di chili. Era un protagonista, spesso attraversava in centro in piedi su di un carro incitando a gran voce e frustando vigorosamente il cavallo, più per scena che per necessità. Raccontava di aver girato in un film a “Cinemacittà”, come chiamava lui, guidando una pariglia di sei cavalli. La sera si coricava prestissimo ed alle due del mattino, almeno un paio di volte la settimana, prendeva il treno per Bari dove trattava centinaia di cavalli piazza saffe prima di sera era di nuovo in piazza ad ostentare un grosso portafogli pieno del denaro guadagnato. Non mancava di raccontare le sue avventure galanti con una terminologia del tutto inedita, si esprimeva con definizioni come “alzabandiera”, “a so’ andé in caròza”, nel senso dell’avvenuta, con, naturalmente, il prezzo dovuto, “a iò dé una cartina”. Sembra proprio che fosse un superdotato, ed i chiacchieroni della piazza raccontavano che avesse offerto i suoi favori a più d’una signora “bene” della città.

Questi sono solo alcuni dei tanti ricordi di Piazza Saffi, tanti altri personaggi e aneddoti potrebbero essere raccontati, ma non si può vivere solo di memorie, penso che il presente sia altrettanto bello, interessante e da ricordare da parte dei giovani che domani racconteranno. Penso che anche oggi ci siano personaggi degni di un racconto, forse non li sappiamo vedere. Le cose sono cambiate, non peggiorate, non dimentichiamo gli agi ed il benessere. Guardiamo bene, quanto colore si è aggiunto, quanti sorrisi che aspettano che siamo noi a tendere la mano.

Franco Fabbri