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Achille Sansovini grande imitatore dei classici

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Ultimo aggiornamento:

«Ebbi il grave torto imitando l’Isabella d’Aragona di dipingerla sulla tela, in tavola mi avrebbe certo procurato maggior soddisfazione, tuttavia ne vado lieto perché S.A.R. Umberto, accettandola da me in dono l’ebbe carissima ed osservandola manifestava a tutti il suo contento di possedere un quadro di Leonardo, diceva Lui…».
Sono parole di Achille Sansovini e la donazione al Principe Umberto di questa sua opera è cosa importante nella vita di questo, oggi, sconosciuto, pittore forlivese.
Nell’Archivio di Stato di Forlì sono conservate due lettere a questo proposito. Una della Prefettura di Forlì: Serie 1 Divisione – 1° Protocollo Generale 795 – Titolo dell’affare: Dono di S.A.R Il Principe Umberto, al Pittore Sansovini; l’altra indirizzata alla Prefettura da cui è protocollata in data 15 maggio1868 e firmata da Achille Sansovini. In questa lettera Sansovini scrive: «La Munificenza di S.A. il Principe Umberto verso di me povero, ed oscuro Artista, se non può sorprendere chi conosce il generoso cuore di Lui riempie però l’intera anima mia e mi fa sentire il bisogno di esprimergli la mia gratitudine. Voglia dunque la S.V. Ill.ma che ringrazio… far gradire a S.A. ai sensi della mia eterna riconoscenza, confessandoLe il ricevimento… dell’orologio con catena d’oro, ricompensa più che larga a quelle mie fatiche. Sono con tutto il rispetto della S.V. Ill.ma , Forlì 15 maggio 1868, Dev.mo Servitore Achille Sansovini».

Questo che abbiamo scritto è forse il momento più significativo della vita di Sansovini. Ne è rimasta traccia perché coinvolge le Istituzioni: la Prefettura e il Principe Umberto. Per il resto della sua vita nulla.
Ma chi era Achille Sansovini? Tentiamo di delinearne la figura. Achille Sansovini nasce a Forlì nel mese di Settembre dell’anno 1830 da Francesco e Maria Plachesi, ed è battezzato nella primiceriale Chiesa di S.Tommaso Apostolo in S.Mercuriale.
Achille Sansovini aveva un carattere in piena ribellione con ogni convenzionalismo. Era il risultato di una educazione rigidamente morale e religiosa praticata in una società con principi ben diversi. In altri tempi, il nostro personaggio sarebbe stato un pacifico francescano scrupoloso osservatore delle regole conventuali e per impulso, più che per passatempo, miniatore certamente felice.
Il mite Achille entra come tutti nel mondo della scuola pubblica, ma con i suoi compagni non ha alcuna familiarità. Lasciata la scuola sceglie di dedicarsi all’arte del bulino. Con Missirini e con Errani fa progressi rapidissimi. La famiglia decide di mandarlo a Roma sotto la guida dei famosi Mercuri e Minardi.

Qui, lui studia, lavora, osserva, per amore dell’arte, non per la gloria cui non ambisce. Un porporato visitando il suo studio, ammirato per un suo lavoro, gli chiede:
– Quanto potrà costare questa incisione, finita che sia?
– Cento scudi, Monsignore.
– Tienila per me, figliolo caro, te ne darò centocinquanta.
Ecco una “eccentricità” di Sansovini: il Porporato non ebbe mai l’incisione. Perché non era riuscita come lui, Achille, voleva.

A Roma conosce il celebre incisore Luigi Calamatta, che consapevole del valore di Achille, lo invita a seguirlo a Bruxelles ed a Parigi dove aveva uno studio per sei mesi all’anno alternativamente in ciascuna delle due città. Comunicata la cosa alla famiglia, Sansovini accetta. Giunto a Livorno si rammarica dell’impegno preso, ma parte ugualmente per Marsiglia. E’ sconvolto per il tempo pessimo per una traversata, e per essere solo senza la madre che adorava. La diversità della lingua, tutto contribuisce a sconvolgergli la mente. Achille Sansovini non appena sbarcato a Marsiglia vuole tornare indietro. E così fa.
A Forlì, fra i rimproveri del padre, le lacrime, non si sa se di felicità o di compassione della madre, le omeriche risate degli amici, insomma in un’assordante confusione, che vuole evitare, decide, per ritrovare tranquillità, di ripartire per Bruxelles… ma….giunto a Lione non ha più la forza di proseguire….là non vedeva il campanile di S. Mercuriale, non la cupola di S. Pietro in Roma a cui si era abituato; si sente soffocare dalla nostalgia e… ancora una volta, torna indietro. Credo che ci saremo già fatti un’idea del carattere di quest’uomo! Nel frattempo le innovazioni tecniche, in particolare il nascere della fotografia con Daguerre, gli fanno capire che l’incisione, è destinata a scomparire. Allora Sansovini decide di abbandonarla per dedicarsi al pennello e così si iscrive alla R. Accademia di Belle Arti in Siena.

Presentatosi al chiaro ed illustre Professore Luigi Mussini con un fascio di suoi disegni, il celebre autore dell’Odalisca non gli risparmia la cruda verità:
– Ma caro giovine, avete studiato con falso metodo – disse – e bisogna rifarsi dal principio. Se così vi piace, venite domattina in classe.
– Accetto di sedermi domani nella classe dei fanciulli a condizione però che la scuola resti per me aperta tutta la giornata.
La risposta fu favorevole. Nessuno si attendeva che fosse accolta e grande fu la soddisfazione degli studenti. Ammesso alla Accademia, Sansovini dà saggio di ammirabile pazienza sino a rifare “trecento” volte uno studio mal riuscito per ottenerlo perfetto. Il prof. Mussini vedeva con gioia i rapidi progressi del giovane romagnolo e ne traeva pronostici assai lusinghieri. Ma l’austerità del Maestro si scontra ad un certo punto con la suscettibilità dell’alunno, che giura che non avrebbe più toccato il pennello se non gli si permetteva di copiare l’Isabella d’Aragona di Leonardo da Vinci. Il prof. Mussini giudica ardita questa pretesa, ma glielo concede. Terminata l’Accademia, Sansovini parte per Roma con lettere del suo amatissimo Maestro e il ricordo degli elogi ricevuti alla vista della sua imitazione di Leonardo.

Realizza così Sansovini la sua vera ispirazione artistica: rifare le opere dei grandi. Dice: «…Ecco, quando lei guarda un quadro, crede che i colori i più appariscenti siano genuini, dovuti cioè ad un solo colore della tavolozza. Ebbene no:… i colori… sono spesso ottenuti con amalgame e sovrapposizioni di colori assolutamente diversi. Risultati questi che il pittore stesso non sempre saprebbe ottenere rifacendo il quadro. Bisogna studiare sempre e sempre l’antico, penetrare nel segreto della tavolozza …. senza di che non si riprodurrà il colore dell’originale. Dedicarmi alla imitazione, che sentivo intimamente e profondamente, fu dunque lo “scopo principale” dei miei studi, che tenni nascosto a tutti specie al prof. Mussini a cui avrei dato dispiacere. Ma intendiamoci , non copiare come si usa per commerciare, bensì imitare in modo da essere tutt’uno con l’originale…».

A Firenze e poi a Roma studia i grandi Maestri del quattrocento e del cinquecento, soprattutto il Beato Angelico che riesce ad imitare in modo perfetto. Talune di queste sue opere furono presentate all’Accademia Romana per un parere e il Consiglio Accademico, presieduto dal celebre Francesco Podesti, dopo lunghissimo e minuzioso esame le dichiarava quadri originali dell’Angelico e del Palmezzano. L’illustre Podesti, colto in inganno, da allora in poi non volle più apporre la sua firma a certificati di autenticazione per timore di rimanere ancora un volta ingannato. Il nostro pittore soddisfatto nel suo amor proprio non si curava d’altro. Egli non pensava all’avvenire, e delle autorevoli testimonianze del suo valore artistico non conservò neppure un documento. In Roma, tutti i più grandi artisti di quel tempo hanno visto e giudicato le imitazioni di Sansovini come originali o riproduzioni dell’autore stesso, nessuno mai vide che erano lavori recenti. Un artista amico di Sansovini, fu Cesare Maccari, Questo insigne artista, studiosissimo dei classici, rimase meravigliato quando vide l’imitazione “Gesù che porta la croce” del Palmezzano. Maccari gli disse:
– Perdio, col tuo pennello si potrebbero fare milioni!
Milioni, sì milioni, se la eccessiva modestia del nostro artista e i princìpi di una rigorosa morale, morale di asceta, non lo avessero trattenuto dal trafficare direttamente o indirettamente vista la sua rara bravura nell’imitare. Infatti per lui la riproduzione di un quadro, meglio se poco conosciuto, dei grandi del 400 o 500, sarebbe stata solo questione di tempo, e la copia “scambiata per l’originale” gli avrebbe procurato fior di quattrini; ma lui, il povero Achille Sansovini, scrupolosamente onesto non sapeva mentire, non voleva mentire.

Ecco qualche aneddoto che meglio ci spiegherà il carattere di Achille, che, forse, non c’è ombra di dubbio, abbiamo già capito!
A Roma fece sapere ad un signore inglese che una modesta famiglia era in possesso di una bellissima tavola dell’Angelico che vendeva per cinquantamila lire.
– 50.000 lire un Beato Angelico? Non è possibile: troppo poco: vedremo domani – disse l’inglese.
Stabilito l’incontro, Sansovini, felice per l’insperata fortuna, raccontò tutto al fratello e alla cognata. Non l’avesse mai fatto! Il fratello che era di severissimi costumi, intravide una frode, e giù parolacce al povero Achille che tutto confuso e mortificato corse a scusarsi con il ricco milord, dicendo che il quadro era stato venduto!

Così facendo, c’è da chiedersi perché si sia dedicato con tanto amore e risolutezza allo studio dell’imitazione, se da questo non doveva trarne alcun vantaggio! E’ chiaro che il Nostro non era ricco e ben poco o nulla poteva sperare da certi agiati parenti, che vivevano a Roma, e che lui trascurava. Carattere, irresolutezza d’animo, rigidezza di costumi un insieme di cose che contraddicevano col più elementare buon senso, essendo ben facile comprendere due cose: in primo luogo chi compra oggetti antichi sa benissimo di cosa si tratta, nella peggiore dell’ipotesi egli avrebbe sempre potuto dire che la sua imitazione costava tanto. In secondo luogo poi, continuando per questa via si sarebbe trovato troppo spesso con un pugno di mosche, invece di denaro! e quante volte gli accadde, povero Sansovini! Pure egli resisté allora e “sempre” alla tentazione; le sue splendide imitazioni non le ha mai negate; neppure quando i più scaltri antiquari, gente del mestiere, cadevano spesso in errore, egli sentiva il bisogno di persuaderli del contrario, sorridendo per gli elogi che gli facevano.

Ancora: stretto dal bisogno, in una città come Roma, nella quale aveva ben poche e sincere amicizie, non sapeva dove sbattere il capo per far quattrini. Rovistando fra le sue tavole vi trova un quadretto incompiuto dell’Angelico, forse la “Natività”, che aveva lavorato nella nostra Pinacoteca. Pensare di vendere il bozzetto tal qual era, non gli avrebbe fatto guadagnare che qualche decina di lire, dargli l’apparenza dell’antico, secondo il suo metodo richiedeva molto tempo, viceversa il bisogno stringeva. Che fare? Il buon Sansovini decide allora di sporcare la preziosa tavola con un impasto di calce viva e quando vide che il colore era abbastanza logorato, la lavò diligentemente. Fu un vero successo, la calce aveva lasciato sul quadro delle lacune così marcate da farlo credere realmente un bel bozzettino antico abbandonato. Un uomo di pochi scrupoli chissà mai cosa avrebbe ricavato da quella tavoletta: ma Sansovini non era tale da approfittare di una simile fortuna. Egli sente prima il bisogno di consultare molto sé stesso, poi si avvia verso lo studio di un pittore suo conoscente, per avere un parere. Fortuna volle che mentre egli stava titubante di fronte allo studio del pittore, un amico, un comune amico ne usciva. Sansovini lo scorge e dopo poche parole scambiate, l’amico prende il quadretto e rientra dal pittore. Sansovini che era fremente, si rasserenò solo quando vede l’amico ritornare con le mani libere.

– Eccole quattrocento lire – gli disse – Pare un bozzetto un po’ sciupatello dell’Angelico, certamente della sua scuola, disse maliziosamente.
Quella somma sembrò al Sansovini una provvidenza del cielo, altri lavori di assai maggiore importanza non gli furono pagati così bene.
Achille Sansovini non era un pittore come si dice, industriale. Egli non calcolava il tempo che avrebbe impiegato nell’imitare le tavole di un Angelico, di un Palmezzano ed altri, la sua maggiore soddisfazione era quella di lavorare, lavorare bene. Nelle imitazioni dell’Angelico specialmente metteva tutta la sua anima d’artista e di credente. Come l’Angelico, ripeteva spesso il motto: «chi vuol dipinger Cristo convien che in Cristo viva». La fede religiosa lo sorreggeva nel lavoro come nei momenti tristi della vita. Studiava le opere dell’Angelico nelle più minute parti del disegno e del colorito. L’imprimitura della tavola era la sua principale preoccupazione. Molti quadri sono stati da lui distrutti dopo lunghi mesi di lavoro, appunto perché non era stata indovinata l’imprimitura: ultimo fra questi fu il Cesare Borgia del Giorgione esistente nella nostra Pinacoteca. Così la Caterina Sforza di Lorenzo di Credi – non di Marco Palmezzano- come erroneamente si continua a stampare nelle cartoline illustrate e nelle targhette della Pinacoteca stessa. Un Ispettore governativo, certamente assai corto di vista e più digiuno d’arte, aveva attribuito l’autoritratto di Palmezzano a Francesco Mengozzi che visse nel secolo XVII ed a Palmezzano un quadro di Melozzo nonostante la firma in latino ( ahi, ahi) dello stesso Melozzo!

Egli era artista, artista nel più alto significato della parola. Egli amava quest’arte, né si sarebbe prestato mai di sua propria mano a prostituirla.: qui a Forlì, poi gli capitò un fatto che lo caratterizza in pieno.
Si presentò a lui in Pinacoteca, mentre stava copiando una tavola dell’Angelico, un Signore straniero accompagnato da due signorine, il quale dopo avere insieme ad esse lungamente osservato in silenzio la tavola posta sul cavalletto, chiese:
– Quanto volere di questo quadretto?
– Signore, rispose Sansovini sorridendo vagamente, il quadro non è ancora finito.
– Non importa: dite, dite, quanto volete? Insisté lo straniero.
– Quando sarà finito, se lo vorrà, potremo combinare, ora no.

Naturalmente il ricco straniero e le sue figliole guardandosi in faccia si misero a ridere di buona voglia per il curioso rifiuto al quale davvero non erano abituati. Forse fu creduta una …eccentricità… sia come sia, sta però in fatto che Sansovini, forte della sua dignità d’artista non abbandonò mai a qualsiasi prezzo un’opera incompiuta.
Gli anni più belli della sua vita artistica Achille Sansovini li passò malauguratamente a Roma. Perché lì non ottenne quei risultati che dalle sue splendide opere sui quattrocentisti poteva legittimamente attendersi. Sappiamo, infatti, che egli scoraggiato oltre ogni dire, fece pratiche insistenti per essere ammesso non si sa in quale convento di frati, con la speranza di trovarvi la pace e lavorare nella solitudine per la Chiesa. Non fu accolto, forse per la mancanza del denaro indispensabile all’ammissione. Per vivere si adattò ad essere impiegato all’ufficio di incisore nella Officina Nazionale della Corte valori.

Citiamo anche Don Tommaso Nediani che nel “Lavoro d’oggi” del 2 marzo 1907 – scrive : «la sua indole mistica aborrendo dall’intrigo, lo fecero un solitario, incapace di crearsi nome ed agiatezza. I suoi quadri, tutte copie di celebri dipinti, non arricchirono che gli speculatori per i quali lavorava, pago il Sansovini delle briciole che cadevano dalle mense degli Epuloni».
Trasferita poi la officina delle carte valori a Torino, non ha la forza di abbandonare la città eterna; rinuncia al posto d’incisore e alla sicurezza dell’avvenire. Ma per lui nulla: né l’amicizia di ottime famiglie, non quella di cospicui cittadini. Nulla, per lui, che si sarebbe accontentato ben di poco!
Achille Sansovini impossibilitato ormai a vivere a Roma, ritorna definitivamente a Forlì, presso il fratello Domenico, copiando nella Pinacoteca vari quadri. Sperava di ottenere un posto in qualche galleria del Regno, ma inutilmente perché era troppo tardi…sempre troppo tardi…

Scrive sempre Tommaso Nediani : «pensava continuamente al Beato Angelico emulandone la vita pura e l’ascetismo inspiratore. Fu celibe, fuggì ogni contatto muliebre si rinchiuse in un dignitoso silenzio. Fu buono, umile, sincero, non fu nel nostro ambiente, né compreso, né valutato. Parve una sopravvivenza di altri tempi e lo fu in realtà, e sdegnò qualsiasi dissimulazione od intrigo…. È passato il nostro povero e buon amico sereno come visse, religiosamente assorto nel suo sogno d’arte».

Circondato dai congiunti e da pochi e cari amici, si spense a 76 anni la domenica sera del 24 febbraio 1907, in via Paolo Bonoli al n° 24 (sarà ancora quello di oggi?) «…proprio con i rintocchi delle campane che chiamano i fedeli all’ultima preghiera. Lo hanno accompagnato da S.Mercuriale al Cimitero gli artisti: Apollodoro Santarelli, Dino Zampanelli, Terenzio Monti, Pio Rocchi. Fiori puri di primule sul tuo sepolcro, e pace al tuo spirito, pace, pace». Con queste belle parole di Nediani chiudiamo queste nostre pagine dedicate a questo Artista forlivese dimenticato.

Agostino Bernucci