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Dedicato a Ferrante Orselli, un benefattore forlivese

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Esiste nel cuore di Forlì una piccola chiesa, o meglio ex chiesa perché sconsacrata e venduta ad un privato, sulla cui facciata in stile neoclassico con sovrastante timpano triangolare, è murata una grande lapide con una lunga scritta in latino datata 1772. È qui che compare il nome di Ferrante Orselli con una breve apologetica descrizione della sua vita e delle sue opere (di bene). La chiesa è dedicata a S.Francesco Regis (Gesuita francese, una vita dedicata ai poveri. Beato nel 1716, Santo nel 1737). Questa chiesetta è posta fra, un tempo via S.Maria in Piazza e Via Misericordia, oggi Via Pisacane e Via De Amicis. Non siamo riusciti a vedere la sua unica navata, perché non è stato possibile l’accesso. Ecco la lapide e la sua traduzione:

 

«a Dio ottimo massimo Al conte Ferrante Orselli Patrizio Forlivese perché ha eretto un tempietto e ha adornato oltretutto con devozione una casa per mendicanti da educare e da formare con un lavoro per la cosa pubblica ha allestito un luogo con le rovine abbattute più che dignitoso e più ampio ha aggiunto vigilanza per adolescenti sfrenati da punire con sanzioni istituì scuole per far imparare i precetti segreti e ha fissato per gli alunni precetti santissimi nella speranza di allontanare (da loro) ignoranza e cattive qualità ha portato aiuto con costante cura e liberalità per più di XXXVII anni morendo in verità ultimo dei suoi e celibe la casa con i mobili i poderi e ogni arredo di campagna e di città e il bestiame presente in entrambi il denaro contante con i nomi del libro dei crediti scelse e comandò di dare lui ottimo virtuoso e superiore a tutti i precedenti amministratori lui uomo del bene – (questa) memoria pose – anno 1772»

Come vedete la traduzione della lapide è stata impegnativa ed è ben riuscita grazie anche al contributo della Prof. Chioccini (grazie Jessica!) e riassumendone il significato ne ricaviamo che Ferrante Orselli … ha costruito una casa per mendicanti da educare e da formare con un lavoro …ha aggiunto vigilanza per adolescenti sfrenati da punire….e ha fissato per gli alunni precetti santissimi nella speranza di allontanare (da loro) ignoranza e cattive qualità… morendo in verità ultimo dei suoi e celibe… scelse e comandò di dare… la casa con i mobili i poderi e ogni arredo di campagna e di città e il bestiame presente in entrambi… il denaro contante con i nomi del libro dei crediti… lui ottimo virtuoso e superiore a tutti i precedenti amministratori… lui uomo del bene – (questa) memoria pose – anno 1772.

Certamente il ricordo di Ferrante è svanito col passare del tempo, il cognome Orselli no. E’ rimasto con la presenza dei Giardini Orselli e il ricordo fissato da qualche foto del famoso palazzo in Via delle Torri. La famiglia è scomparsa dopo varie traversie. Vogliamo prima chiarire qualche punto che ci lascia perplessi. Ferrante nasce nel 1710 e muore nel 1766, allora perché nella lapide compare la data 1772 e sotto il timpano leggiamo 1790? C’è anche l’affermazione che fosse l’ultimo dei suoi, possiamo dire che non è vero. L’ultimo degli Orselli è Giuseppe (1782-1843) massone, carbonaro, cospiratore, interrogato dal famoso inquisitore Antonio Salvotti, (come Maroncelli e tanti altri più famosi di lui), incarcerato e bandito in perpetuo dagli Stati controllati dall’Austria. Il ritorno a Forlì nel 1829 avviene per sottoporsi al giudizio del Cardinal Legato Sanseverino. Ma la vicenda del cognome Orselli non termina qui. Lo vedremo. Tornando al nostro Ferrante e volendo tracciarne una biografia abbastanza esauriente diciamo che il 26 agosto 1710 nasce a Forlì dal Conte Giovanni Orselli, uomo di legge, e dalla Contessa Teresa Folfi. Come è facile immaginare, in tale blasonata famiglia, ricevette una degna educazione.

Si applicò anche nelle arti liberali, pittura e violino, che poi lasciò per dedicarsi ad azioni improntate alla pietà cristiana e al bene dell’anima. Fin dall’età di 15 anni iniziò ad istruire i fanciulli nella Dottrina Cristiana. Tutte le domeniche andava in giro con un campanello per radunare i fanciulli di S.Mercuriale, per insegnare Dottrina. Questo impegno lo conservò fino alla morte. Alla Misericordia (l’Istituto dei mendicanti fondato fin dalla fine del 1500 per aiutare i bambini abbandonati che, nelle strade, mendicavano a stento la vita. Qui si insegnava a leggere, a scrivere e i mestieri. Infatti, l’Istituto occupava tutta Via De Amicis e sulla piazza Cavour nel palazzo ancora oggi esistente e distinguibile per la facciata con mattoni a vista, c’erano le botteghe di artigiani che insegnavano i mestieri – nel disegno della piazza di G.Santarelli, l’edificio viene definito di proprietà della Congregazione dei Pij Istituti Ecclesiastici.) faceva venire i fanciulli della sua parrocchia e non solo, tutte le sere di Quaresima per prepararli alla prima Comunione. Il giorno di questa, li conduceva in processione a due a due alla Parrocchia e successivamente gli donava un bel crocefisso.

Quest’ufficio di catechizzazione lo estese anche fuori di Forlì come nella Parrocchia di San Tomè, dove aveva un Casino (non ce n’è più traccia) con un bell’Oratorio dedicato
alla Vergine. Così pure alla Parrocchia di Collina dove aveva un bel palazzo (esiste ancora) che voleva lasciare ai Gesuiti. Qui faceva venire dei Padri della Compagnia a predicare. Si facevano lezioni e domande, la mattina, erano le fanciulle ad essere educate e interrogate. Alla più brava dava sette scudi ed un crocefisso. Il pomeriggio faceva lo stesso con i ragazzi e al più bravo dava 3 scudi e un crocefisso. Possiamo già dire con certezza che Ferrante era un uomo con una Fede talmente profonda che oggi lo definiremmo un fanatico. Aveva talmente a cuore le virtù che fu custode vigilantissimo dei suoi sentimenti e pur di non perdere la verginità non volle mai prendere moglie. La sua famiglia era preoccupata perché con questa scelta, lui figlio unico, condannava il ramo della sua famiglia all’estinzione.

A Monsignor Folfi, suo zio, nonché cameriere segreto di Clemente XII, che aveva minacciato di diseredarlo, Ferrante rispose che della sua eredità, che non era piccola, non se ne curava. Essendo un giorno in una chiesa con la madre, una dama presolo per mano gli disse volerlo far sposo con una fanciulla presente, egli arrossito ritirò la mano e diede uno schiaffo sonoro alla signora, e uscì piangendo dalla Chiesa. Al sol sentir parole sporche e vocaboli osceni tremava e inorridiva e aspramente riprendeva chi così parlava. Come abbiamo visto la sua preoccupazione maggiore erano i giovani, ma non mancava di frequentare il pubblico ospedale assistendo i malati e i moribondi, così anche nelle case dei poveri. Era pieno di umiltà sia nel parlare, sia nel trattare con le persone, soprattutto con i poveri. Vestiva in modo molto semplice, mai vesti sfarzose, né parrucche alla moda (siamo nel 1700!) dicendo che gli bastava il ferajolo rosso (mantello). Da tutto quanto abbiamo finora detto possiamo immaginare come fosse una sua giornata. Ogni mattina si alzava per tempo, faceva un’ora di orazioni nel suo Oratorio domestico davanti alle sue reliquie (!) ascoltava una o più Messe ogni giorno, si confessava tutti i venerdì e le domeniche e si comunicava e recitava lunghi e prolissi ringraziamenti.

Ogni sera faceva l’esame di coscienza e leggeva i punti della meditazione per la mattina, si tratteneva nella sua stanza, in ginocchio, davanti ad un Crocefisso per più di mezz’ora e lo si sentiva singhiozzare. Non solo, non si faceva mancare anche un cilicio, una catenella di ferro a più ordini pungentissima. Casa sua era sempre piena di madri, bambini, di servitori che cercavano padrone e a tutti provvedeva con carità, con consigli e li aiutava, parlando ad un Signore, ad un maestro di bottega o di scuola, ora ad un parente o a chi egli conosceva e tutti erano consolati. Il suo nome era noto a chiunque della città, e bastava dire lo dirò al Conte Ferrante che tutti i ragazzi sia che avevano timore e anche i più discoli al sol vederlo si ricomponevano e smettevano o di giocare o di parlar male, come pure in tutti i momenti di bisogno bastava ricorrere a lui per essere certo di essere aiutato. Immerso in tutti questi impieghi che non gli lasciavano un momento di tranquillità si ammalò. In principio non diede grande importanza alla malattia. Ma l’idropisia, dolorosissima si aggravò, ma mai venne meno la sua rassegnazione alla volontà di Dio. Cominciò così l’ultimo periodo della sua vita in cui si aggravò anche per il sopravvenire di una febbre convulsiva. Assolti tutti gli ultimi adempimenti cristiani, il Viatico, l’estrema unzione e l’assoluzione in articulo mortis nella tarda serata del 30 novembre 1766 morì. Nel suo testamento, come leggiamo nella lapide, lasciò tutti i suoi averi alla Misericordia. Ma non fu così. Infatti Gli Orselli di altri rami, impugnarono il documento e si spartirono i beni e all’istituzione non rimase che una rendita. Sarebbe interessante approfondire questa diatriba fra i vari rami degli Orselli, che a colpi di sentenze, avvocati è durata più di un secolo. Vedremo in un altro momento se raccontarla.

Agostino Bernucci