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Una riflessione sulla scomparsa di Sergio Giammarchi

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Sergio Giammarchi il partigiano non è più tra noi, ci ha lasciati verso una dimensione dove impera la “livella”, giudice dell’equilibrio tra il bene e il male della vita terrena di ciascuno di noi, vicenda considerata, però, fuori da ogni colore o coloritura e, soprattutto, valutata quanto possa ritenersi di esempio universale.

La morte terrena, comunque, esige sempre rispetto, ancora di più quando rapisce chi si sia distinto per il suo impegno a sostegno di una causa o altro obiettivo in cui ha creduto: in quest’ultimo caso, tuttavia, il rispetto non può escludere la riflessione critica quanto quella causa o quell’obiettivo siano stati e siano tuttora attuali, contestualizzati nello spirito, nel quadro sociale, culturale e politico del tempo che viviamo.

So, in un certo qual modo, di essere pure io debitore a Giammarchi della libertà nella quale ho vissuto e vivo, ma è, ormai, un debito saldato da tempo, anche con l’amara delusione quanto la gestione di questa libertà sia stata parziale, spesso amministrata con imposizione, persino autoritarismo, mirata a contrapporre, a dividere, a frazionare, mai a ricomporre tutto e tutti verso fini comuni.

Ecco, sin da ragazzo, nelle vie di Firenze e altrove ho sentito di vivere una libertà di parte, dunque partigiana che, vincitrice, esigeva e ancora vorrebbe esigere un tributo, dovutole in eterno. Un tributo sempre più assimilabile ad una rendita di posizione, indiscussa e indiscutibile, pur se, sempre più, nell’occhio di una memoria e una ricerca storica che ne ha rivelato e rivela ombre, colpe, nefandezze. Giammarchi è stato il combattente partigiano di questa libertà partigiana, sicuramente maggioritaria in passato, ma ora criticamente declinante perché incline a difendere la vecchia trincea antifascista, oggi tanto anacronistica, fuori dalla realtà, dalla dinamica progressiva del nostro Paese.

In oltre 70 anni di maggioritaria libertà partigiana il “paese reale” ha costantemente, per fortuna, sopravanzato quello “legale”, alfiere di una permanente ipoteca resistenziale su ogni possibile diversa evoluzione del sistema politico italiano: assurdamente l’Italia è rimasta così divisa non solo tra fascismo e antifascismo, ma soprattutto tra innovazione e conservazione, dicotomia questa che, certo, si muove alimentata da idee, progetti, visioni ben diverse dalla ristretta ottica del campo antifascista e del suo antagonista.

Sergio Giammarchi è stato un celebrato combattente di parte, icona dell’epica della Resistenza, e, come altri della sua parte e della parte avversa, non va dimenticato, protagonista di una terribile guerra civile tra italiani, addirittura continuata e continua ai nostri giorni in una resa dei conti senza fine. Senza volerlo Giammarchi è divenuto vessillifero della conservazione resistenziale antifascista, lasciandosi trascinare in un “amarcord” sempre più alle spalle di chi, invece, oggi cerca futuro e nuova società.

Ricordo un partigiano della Val di Bure, Appennino pistoiese, aderente a Giustizia e Libertà, poi ingegnere meccanico e manager di grande, riconosciuto valore, che, a guerra finita, si è impegnato davvero, pure professionalmente, nel dialogo con chi, magari, lo aveva tenuto sotto mira negli scontri sui monti attorno a Pistoia: lui sì un grande esempio, non più solo antifascista, ma soprattutto un vero, concreto precursore innovatore.

Franco D’Emilio