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L’indispettita reazione dei soliti ‘cecchini’ contro “La fortuna di Dante nel Ventennio”

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Ultimo aggiornamento:

Era scontato che sabato 15 maggio l’inaugurazione a Forlì della mostra “La fortuna di Dante nel Ventennio” suscitasse, soprattutto nei commenti su un giornale locale on line, l’indispettita reazione dei soliti cecchini, più o meno partigiani della residuale e, ormai, anacronistica battaglia antifascista. Il rigurgito resistenziale non mi ha stupito più di tanto: prevedibile folclore politico, davvero triste, mosso da patetici agit-prop, guitti, insomma “personaggetti” squallidi, senza senno, da troppo tempo in astinenza di visibilità e considerazione altrui. L’occasione capitava a fagiolo per ridare fiato all’antifascismo parolaio e fancazzista, testardamente divisivo della società italiana, soprattutto delle sue nuove generazioni.

Sì, parolaio e fancazzista come, appunto, sono i ciarlatani inconcludenti e i perdigiorno che giudicano, sentenziano senza la minima conoscenza di quanto vogliono ad ogni costo condannare a priori, per partito preso. Dunque, una tiritera di parole a vanvera, anche offensive, persino volgari, tutto sostenuto da beata, spocchiosa ignoranza. Tanto insipiente tribunale del popolo ha subito ravvisato nella mostra in questione la colpa dell’apologia del Fascismo; ha subito palesato un risorgente pericolo in camicia nera ed orbace; si è subito stizzito per un’iniziativa culturale libera, fuori da ogni servitù di partito e leccaculismo nei confronti del potere locale.

Processo, quindi, per direttissima sui soli, inconsistenti e aprioristici indizi nelle mani della parte giudicante e non sulle prove oggettive se davvero nella mostra “La fortuna di Dante nel Ventennio” si sia consumata un’apologia del trascorso regime o chissà quale altra pericolosa, diabolica iniziativa contro la libertà, la cultura, la stessa figura di Dante.
Come curatore della mostra, ho voluto indagare i motivi della grande popolarità di Dante durante il Ventennio, dell’ampio uso propagandistico da parte del regime di taluni temi, profezie, simbolismi danteschi, infine del notevole sviluppo della Società Nazionale “Dante Alighieri” in Italia e all’estero per il proposito del governo fascista di diffondere maggiormente la cultura italiana in patria e nel mondo. Neppure ho eluso l’uso distorto di taluni versi danteschi da parte del regime per sostenere la tragica persecuzione antisemita.

La mostra è un percorso storico-documentario, contestualizzato nel periodo di riferimento, suddiviso in 12 sezioni, rispettivamente:
1) Dante, padre, simbolo ed eroe dell’unità nazionale;
2) La celebrazione di Dante e Virgilio nell’Italia fascista;
3) Dante nella cultura fascista;
4) Giovanni Gentile, il filosofo al potere nel segno di Dante;
5) Da Dante al Fascismo la poesia madre dell’Italia nazione;
6) Mussolini veltro e duce per l’aquila di Cangrande;
7) La rivoluzione fascista nel suo volo oltre le Colonne d’Ercole;
8) I temi del Fascismo nel canto di Sordello;
9) La Società Dante Alighieri nello spirito della rivoluzione fascista;
10) L’aquila di Dante tra l’antica Roma e l’Italia fascista;
11) L’incontro futurista di Dante co Marinetti;
12) Dante ispiratore dell’antisemitismo fascista?

Credo che per onestà e giustizia si debba sempre conoscere quanto legittimamente si vuole giudicare, ancora di più se col fine di una possibile condanna: diversamente si rivela solo presunzione, disonestà culturale e morale.
Mi ha amareggiato vedere tra i detrattori della mostra talune persone, da me conosciute quando erano studenti universitari, supportati dal mio lavoro di funzionario nelle loro ricerche presso l’Archivio di Stato di Forlì: li ricordavo simpatici giovani con la speranza di cambiare il mondo, come i “Quattro amici al bar” di Gino Paoli; poi li ho saputi assunti in istituzioni culturali pubbliche per concorsi fortemente condizionati da “patrocinio di partito”, una sorta di “un aiutino, Mara”, ricordate?; infine, me li sono ritrovati miei accusatori per la mostra su Dante!

Proprio vero, si nasce piromani e spesso si diventa pompieri per la propria convenienza, tradendo sé stessi e i principi di un tempo, magari sino a colpire gli altri in modo proditorio.
Nel caso de “La fortuna di Dante nel Ventennio” qualcuno ha voluto insensatamente giudicare senza conoscere e ciò è solo esibizione di arroganza e autoritarismo, comportamenti intollerabili, anzi incompatibili con l’amore per la cultura che, innanzitutto, è verità.

Questi detrattori, tanto inclini all’offesa, addirittura al vomito sulla mostra sotto accusa, mi ricordano tanto quegli pseudointellettuali di sinistra che firmarono il cosiddetto “manifesto contro il commissario Calabresi”, pubblicato dal settimanale L’Espresso il 13 giugno 1971 o, ancora, mi ricordano il settarismo di quanti sempre a sinistra gridano contro il pericolo fascista e tuttora dicono che i terroristi rossi, invece, sono solo “compagni che hanno sbagliato”.
Non sono mai stato un nostalgico del vecchio regime né solo un militante di destra, cerco di essere un uomo libero, pure controcorrente, se ci riesco coraggioso, come richiede il viaggio giusto e imparziale della cultura.

Franco D’Emilio