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Il glicine Manoni: un itinerario alla ricerca dei glicini storici nel cuore della città

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Ultimo aggiornamento:

In questi giorni i glicini stanno fiorendo, anche in condizioni climatiche non ottimali. Nel centro storico di Forlì sono presenti diverse piante di questa specie che hanno assunto una connotazione storica o per l’età o per il luogo che abbelliscono. In più tappe cercherò di fornire una mappa dei glicini storici della nostra città.
I trattati di botanica dedicano ampio spazio al glicine nonché alle numerose specie e varietà presenti nel territorio italiano. In questo contesto riporterò solo le notizie essenziali su questo arbusto rampicante dal fusto volubile e ramificato, molto vigoroso, legnoso e robusto, che può raggiungere anche altezze fino a 20 metri.

Il nome comune italiano deriva dal greco glukos (dolce), per il succo vischioso e dolciastro dei suoi fiori, molto appetito dalle api, mentre le radici, la corteccia e i semi contengono un glucoside tossico. Le foglie di questa pianta, caduche, sono composte da 9-13 foglioline ovato-lanceolate, acuminate. I fiori, di colore violaceo, sono riuniti in densi grappoli pendenti. La fioritura è abbondante e compare, in primavera, prima dello sviluppo delle foglie. I frutti sono legumi coriacei di colore nero-bruno. A maturazione si aprono improvvisamente, a scatto, proiettando i semi a qualche metro di distanza.

Il glicine è originario dell’Asia orientale, in particolare della Cina, ma è ampiamente diffuso anche nella costa orientale degli Stati Uniti. Il nome scientifico “wisteria sinensis” fu assegnato alla pianta in onore allo studioso statunitense Kaspar Wistar (1761-1818).
Fu un capitano inglese, Robert Welbank, a importare la pianta in Europa nel 1816, più precisamente in Inghilterra, su di un carico mercantile della flotta della compagnia delle Indie orientali. Il glicine, però, non venne immediatamente tenuto in considerazione dai botanici inglesi e si dovettero attendere un paio di anni prima che “la vite blu” importata da Cina e Giappone spopolasse nei giardini europei. Dei primi esemplari importati vive ancora oggi una pianta che è quella più vecchia esistente in Europa, si trova al Kew Gardens di Londra ed è il glicine più grande e spettacolare che esista al mondo.

La pianta, coltivata a scopo ornamentale, è ritenuta un talismano contro le calamità e si crede che dia la forza per realizzare i propri desideri. Nell’Europa, occidentale dove si è ambientato perfettamente, il glicine rappresenta uno dei rampicanti più tipici per l’ornamento di facciate, pergolati e recinzioni che fiorisce nei nostri climi all’inizio dell’estate e spesso produce una seconda fioritura due mesi dopo. È una pianta rustica capace di resistere anche a temperature rigide, anche meno quindici gradi, senza particolari esigenze per quanto riguarda la natura del terreno, mentre l’esposizione può variare dal pieno sole alla mezz’ombra.

Su questa pianta si raccontano molte storie, soprattutto sul suo uso simbolico. Durante i loro viaggi per visitare altri paesi gli imperatori giapponesi portavano con sé dei piccoli bonsai di glicine, questo perché, una volta giunti a destinazione, consegnavano in dono i piccoli alberelli in segno di amicizia e benevolenza nei confronti degli abitanti delle terre su cui erano giunti.
Il glicine ha un significato simbolico nel buddismo Jodo Shinsu e l’immagine dei suoi grappoli di fiori è raffigurata nei templi perché sono simbolo di luminosità ma anche della labilità della vita che è sempre in evoluzione e trasformazione. In Cina e in Giappone il glicine simboleggia l’amicizia e la disponibilità e viene considerato un talismano contro le avversità, da regalare alle persone che più si amano.

Il glicine di via delle Torri

Il glicine più famoso di Forlì è sicuramente quello di via delle Torri, comunemente chiamato “il glicine di Manoni” (foto Giulio Sagradini). Fu infatti piantato nel 1915 da Stefano Manoni come ornamento della facciata della sua abitazione e del sottostante negozio di “spaccio di colori”, come veniva definito un tempo, e ferramenta (da qualche anno l’attività commerciale non è più esistente in quella sede essendosi spostata in corso Garibaldi).
Il “glicine Manoni” è amato dai forlivesi per la sua bellezza e imponenza oltre che per la sua storia, soprattutto per il fatto che si salvò dal devastante bombardamento alleato del 25 agosto 1944; un’ennesima incursione che tutti i rintanati nei rifugi, al buio, nel calore umido e opprimente, credettero destinata a colpire la zona della stazione, dello scalo merci e della ferrovia. Ma quella volta i grappoli di bombe che caddero dal cielo per un “errore” del puntatore della squadriglia aerea dell’aviazione sudafricana, incorporata in quella inglese, caddero in pieno centro.

Piazza Saffi venne sconvolta dalle esplosioni, il monumento a Aurelio Saffi fu danneggiato irrimediabilmente, le prime case di via delle Torri furono sventrate. I morti e i feriti si contarono a centinaia. A questo proposito lo scrittore Paolo Cortesi in un testo di diversi anni fa annotò: “Quello che era stato un quartiere, colmo della monotona eppur sempre nuova vita quotidiana, vivo di voci, animato da persone con le loro piccole grandi storie, diventò un tetro labirinto di macerie, irto di pali carbonizzati, di muri sbrecciati, irriconoscibile, perduto per sempre”.

La mesticheria di Stefano Manoni fu uno degli edifici colpiti in quel giorno maledetto. La casa crollò, restò solo una parte dei muri perimetrali, i tre piani in cui era divisa si afflosciarono uno sull’altro, così come si può notare dalle immagini scattate poco più di settantasette anni fa. Quello che desta sorpresa nel visionare quelle fotografie è che accanto al portone rimasto chiuso nonostante la devastazione, tra macerie e pietre, il glicine è ancora dritto incredibilmente intatto. “Sorprendenti bizzarrie del caso”, aggiunse Cortesi, “muri e acciaio si piegarono alla furia dell’esplosivo, mentre la pianta sopravvisse al vortice di fuoco. Ma no: forse non fu solo il cieco caso che alzò il pollice per l’esile glicine. È consolante credere che Qualcosa, Qualcuno volle ricordarci, con questo facile simbolo, che la feroce pazzia degli uomini non può spegnere le ragioni e la forza della Vita”.

Non si può a questo punto non ricordare chi sono stati Dario, Stefano e Gianna Manoni. Lo farò attingendo informazioni dai due volumi “Personaggi di Forlì. Uomini e donne tra Otto e Novecento” di Marco Viroli e Gabriele Zelli, editi dalla Società Editrice “Il Ponte Vecchio” di Cesena, e dalle ricerche dello studioso Alvaro Lucchi.

Dario e Stefano Manoni: “spacciatori” di colori

La presenza del glicine di via delle Torri la si deve a Stefano Manoni, perché, come accennato, lo piantò di fronte alla sua azienda nel 1915, così come va riconosciuto allo spirito imprenditoriale di Dario Manoni (1830 – 1895), l’avvio a Forlì di una fabbrica artigiana di vernici e colori a olio. Inizialmente il laboratorio era attrezzato con un macchinario alimentato da un motore a vapore che consentiva di produrre circa cinquanta quintali di vernice all’anno.

Il 29 giugno 1852 Dario Manoni insieme alla quasi totalità dei titolari di negozi e botteghe della città tenne chiusi i battenti per protestare contro l’esecuzione da parte dei papalini di quattro giovani patrioti. Facendo ciò si esposero tutti al rischio di arresti e di multe salatissime da parte del delegato pontificio, che era coadiuvato da una guarnigione composta da oltre mille soldati austriaci. L’elenco degli aderenti alla protesta è formato da 102 negozianti. Questa preziosa lista ci permette di compiere una sorta di singolare viaggio immaginario tra le botteghe e i mestieri forlivesi dell’epoca. Come si diceva, tra i vari nomi figura quello di Dario Manoni, “spacciatore di colori”, ai numeri 22/26 di via delle Torri.

Nel 1890, il figlio Stefano (1854-1939) proseguì l’attività avviata dal padre introducendo l’alimentazione dei macchinari tramite motore a scoppio e incrementando la notorietà che aveva assunto l’azienda. Egli continuò la produzione di ottimi colori come il giallo cromo, l’azzurro Parigi, l’ossido di ferro, difficili da realizzare; in particolare seppe produrre una qualità di “minio” esportabile, più malleabile e più lento nella solidificazione (quello in uso, derivato dal piombo, si solidificava in maniera molto rapida e col pennello era difficile da stendere). Il rosso sgargiante del minio si aggiunse così alla vasta gamma di colori usati per la decorazione dei plaustri, i tradizionali carri in uso nelle nostre campagne. La già avviata attività ebbe così ulteriore slancio, tanto che la ditta Manoni si pose in concorrenza con analoghe aziende attive in Germania, ritenute le migliori produttrici di colori a olio per la pittura. Non mancarono i riconoscimenti a livello nazionale, tra i quali la Croce d’onore e Medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale “Invenzioni moderne”, tenuta a Roma nel 1911.
Alla morte di Stefano Manoni, avvenuta nel 1939, la guida dell’attività passò alla figlia Gianna, la quale profuse gran parte delle sue energie e del suo spirito instancabile anche in attività sociali, culturali e patriottiche.

Gianna Manoni

Il glicine di via delle Torri fu curato personalmente da Gianna Manoni, secondogenita di Stefano, nata a Forlì il 1° gennaio 1895, fino al 1990, anno della sua morte. Nella pubblica cerimonia, organizzata nel 1992 per commemorarne la figura, così la ricordò tra gli altri il compianto Rolando Romanzi: “poiché nutriva poca simpatia per gli studi, non condusse a termine le scuole medie, preferendo al chiuso delle aule scolastiche la macinatura dei colori, l’odore acre della trementina, le tavolozze e i pennelli della bottega paterna, che godeva di buona fama in tutta la Romagna”.

Nella stessa occasione venne scoperta una lapide in via delle Torri 14 con su scritte queste parole: “QUI VISSE LA SUA LUNGA ESISTENZA / GIANNA MANONI / MAESTRA D’AMORE E DI PACE / PROFUSE INSTANCABILI ENERGIE / ISPIRATA DAL PATRIO SENTIRE / E DALLA NATURALE PROPENSIONE ALL’ALTRUISMO / LA CITTADINANZA RICONOSCENTE POSE / A DUE ANNI DALLA SCOMPARSA / FORLI’ 1 GENNAIO 1992”.
Allo scoppio della Prima Guerra mondiale Gianna aveva 20 anni. Spinta da un profondo “amor patrio”, si schierò per l’interventismo. Molti suoi coetanei la ebbero come “Madrina di guerra”. La Manoni prestò loro assistenza morale e materiale; li consolò e cercò di alleviare le loro sofferenze, intrattenendo una fitta corrispondenza con i giovani Forlivesi al fronte. Sottraeva molte ore al riposo notturno per preparare personalmente scarpe, passamontagna, calze da destinare ai soldati che dovevano difendersi dal gelo e dal fango delle trincee, oltre che dal piombo dei cecchini nemici. In mezzo agli indumenti riponeva inoltre pacchetti di sigarette e medicinali, in particolare tubetti di chinino.

Riguardo alla figura e alla vita di “Giannina” non ci si può limitare però a evidenziare solo questo momento. Nel 1939, morto il padre, prese il suo posto nella conduzione dell’attività commerciale di famiglia e si dedicò da vera imprenditrice alla sua attività. Unico “difetto” che le si poteva attribuire era quello che non riusciva a mettere da parte il denaro guadagnato in quanto ne destinava una gran parte all’aiuto di chi versava in stato di indigenza. Merita perciò di essere ricordata dai Forlivesi come una persona buona e generosa, una benefattrice che tanto ha dato di sé per alleviare le sofferenze del prossimo in difficoltà. Come ha potuto appurare lo studioso Alvaro Lucchi, Gianna Manoni fu tra i sostenitori di un centro di assistenza sorto ai Romiti per la protezione dei minorenni, istituito dalle donne di cultura mazziniana, si prodigò per conservare la memoria della Grande Guerra, durante e dopo il Secondo Conflitto mondiale aiutò gli sfollati promuovendo numerose iniziative per sostenerli economicamente e per il mantenimento agli studi di alcuni giovani molto dotati appartenenti a famiglie con gravi problemi finanziari. Si battè, purtroppo vanamente, per la costruzione di un nuovo teatro comunale in sostituzione di quello distrutto dagli eventi bellici.

Grande appassionata di teatro e di lirica, l’avvenimento che la rese veramente popolare in città fu l’allestimento dell’operetta Fior di Loto. Fu lei che pensò a tutto, coinvolgendo centinaia di persone fra attori, musicisti, comparse, scenografi, tecnici, oltre che decine di adolescenti (fra questi Franco Rusticali, poi divenuto sindaco di Forlì, Vittorio Mezzomonaco, che ha retto da direttore i nostri Istituti Culturali, Emanuela Bianchi Porro, che intraprese la carriera di ballerina alla Scala di Milano, nonché sorella della Beata Benedetta). Fece tutto ciò con il solito spirito di abnegazione che la contraddistingueva e con un enorme impegno che assorbì ogni sua energia per un lungo periodo.
L’operetta debuttò il 5 aprile 1947 al teatro “Esperia”. Fu subito un grande successo, tanto da far registrare trentacinque repliche; la sua eco fu tale e tanta che dall’America giunse una richiesta di tournée della durata di tre mesi.
La prossima tappa sarà dedicata ai glicini di piazzetta Antica Peschiera e del vicolo Matteucci.

Gabriele Zelli