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Basta tenere un mestolo in mano per saper cucinare?

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In questi ultimi mesi, a causa del prolungato periodo di pandemia, con tutte le conseguenze del caso, in molte famiglie si è riscoperta la validità dell’invito rivolto a tutti di Pellegrino Artusi: “Basta che si sappia tenere un mestolo in mano, che qualche cosa si annaspa”; come scrisse l’autore de “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, che pubblicò a proprie spese la prima edizione nel 1891, alla bell’età di settantuno anni. “Un manuale che riassume l’esperienza di venti secoli dell’arte gastronomica del nostro Paese…” scriverà Orio Vergani, ma affettuose e ancor più lusinghiere parole gli verranno dedicate da tanti altri come i famosi scrittori romagnoli Francesco Serantini (1889-1978), Olindo Guerrini (1845-1916) noto con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, Alfredo Panzini (1863-1939).

La cucina casalinga

La cucina romagnola casalinga è un patrimonio storico-culturale che ha rischiato di scomparire. Costituito da centinaia e centinaia di ricette, spesso non codificate e non scritte, questo sapere è soggetto a infinite variazioni sul tema ed è spesso difficile rintracciare e conservare le fonti originarie. Anche perché nessuna ricetta può essere considerata unica e perfetta e ciascuno ritiene la sua migliore di tutte le altre.

Una cucina povera

Anche la cucina della Romagna nasce povera. La “grande” cucina si esercitava nelle corti principesche e signorili, nelle dimore aristocratiche dove si cucinava mentre dalle nostre parti si cuoceva, che è cosa ben diversa. Eppure le nostre nonne e le nostre mamme, le “azdore”, hanno inventato piatti prelibati che si sono tramandati di generazione in generazione e che ancora oggi si raccomandano per la loro bontà. Grazie a queste donne c’è un denominatore comune in una regione così eterogenea e composita come la nostra ed è la pasta sfoglia, tirata a mano con il mattarello. La pasta è la stessa, da Piacenza a Rimini, ma la forma (l’involucro) e il contenuto (il ripieno) variano in ogni città, e addirittura da paese a paese della stessa zona a seconda che sia collocato vicino al mare, o nella pianura, o nella collina.

Se è vero che in Italia si mangia generalmente bene quasi ovunque, nella nostra Regione si mangia più che bene. Magari si mangia in maniera “robusta”, ma si mangia sano e genuino. Chi tradisce gli aspetti del sano e genuino automaticamente si mette fuori mercato. Avere un occhio di riguardo anche ai portafogli dei cittadini e in particolare dei tanti turisti è una spinta in più per qualificare ulteriormente l’offerta.

Stesso discorso vale per il vino che è una componente essenziale del buon mangiare. Non ci si può lamentare dei nostri vitigni. Meno blasonati di quelli piemontesi, friulani e toscani, ma quello che viene prodotto dalla pigiatura e dal mosto si accompagna molto bene con i nostri cibi. La tendenza in atto da parte dei produttori è quella di incrementare la qualità. I vigneti dalle nostre parti sono sempre stati un elemento presente e capace di dare vino in quantità e non sono mancati coloro che in vario modo lo hanno elogiato. Riporto qui un Bacco in Romagna trascritto nel 1818, dall’Abate forlivese Giuseppe Piolanti facendo il verso al “Bacco in Toscana” dove vengono elogiati tutti i vini delle campagne e delle colline. “Andiam, Bassaridi, a larga del vin mescentemi di San Varano”, e poi “Del Trebbiano di Majano mi si rechi tosto qua: e con quel di Grisignano s’imbandisca pur mio desco, che trincar come un Tedesco me ne voglio senza orgoglio una buona quantità”. Ancora: “Oh! Non ho tanta favella da lodar come conviensi di Faenza e Civitella quel famoso, vigoroso vin squisito, vin superbo, tutto spirito, tutto nerbo”. Strano soggetto questo abate: ex carbonaro convertito alla reazione più intransigente, medico di chiara fama ma a suo modo controcorrente, libellista salace e trattatista pungente, oltre che dotato di uno spiccato spirito conviviale. Era conteso per i pranzi e le cene dalle famiglie più ricche e nobili, oltre che da prelati, a Forlì come a Roma. Possedeva una conversazione raffinata e una stazza corporea gigantesca; era considerato un fenomeno gastronomico di straordinaria voracità. Capace di divorare dodici portate contemporaneamente. Tra un boccone e l’altro era in grado di improvvisare elegie e ditirambi, animando qualsiasi evento conviviale e richiamando l’attenzione entusiasta di tutti.

La “piè” (la piadina)

Impossibile non parlare a questo punto della “Pi, o piè, o pida, o pièda a seconda del dialetto, schiacciata sottile di pane azzimo, cotta sul “testo”. Icilio Missiroli, maestro, scrittore, Sindaco di Forlì, nel volume “Romagna” ne fornisce una descrizione straordinaria con “l’azdora” che si è “messa in moto”. “Ecco, ha impastato la farina con strutto, sale, e un po’ di bicarbonato, perché cuocia meglio” prosegue Missiroli, “ha spianato con il mattarello una parte dell’impasto, fino a ridurlo a sfoglia sottile e rotonda, di giusta grandezza”. Dopo la cottura “la piada è pronta: calda ed odorosa eccita il desiderio e invoglia a mangiare sfidando il pericolo di una scottatura. Che delizia dividere la bella piada nei suoi quadri, spaccarli a metà e spalmare ogni parte con quel bel formaggio morbido, che in Romagna chiamasi ‘squaqueron!’… chiedetene qualcosa ai buongustai campagnoli, di questa… pietanza: vi diranno che è cibo da re”.
Anche la cucina di mare in Romagna riveste un ruolo di primo piano. Se ne parlerà nel sesta e ultima parte di questa trattazione sugli aspetti della tradizione culinaria delle nostre terre.

Gabriele Zelli