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Il Giorno del Ricordo giunto così tardi

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Ultimo aggiornamento:

Dal 10 febbraio 2005, quindi sono già 16 anni, celebriamo il “Giorno del Ricordo” per rinnovare una duplice memoria: innanzitutto, la memoria di quanti, italiani e non, circa 5.000, tra il 1° maggio e il 12 giugno 1945 caddero vittime delle foibe carsiche ad opera delle truppe jugoslave di Tito, liberatrici di Trieste e del Friuli Venezia Giulia dal nazifascismo; poi, la memoria degli oltre 300.000 profughi giuliano-dalmati che, dopo la ridefinizione dei confini orientali con il trattato di pace del 10 febbraio 1947 e sino al 1956, furono protagonisti di un grande esodo verso l’Italia, spesso accolti con ostilità, pregiudizio di filofascismo e sino al 1960 confinati in 109 luridi, fatiscenti campi di raccolta.

Con la complicità e pure la copertura dei comunisti italiani il comandante Tito, fra l’altro, eliminò nelle foibe anche tanti antifascisti italiani del CLN, contrari alle mire espansionistiche, per fortuna contrastate dal presidente USA Truman, della Jugoslavia su Trieste e la Venezia Giulia. Né va dimenticato come l’obiettivo di Tito fosse, soprattutto, quello di una radicale “pulizia etnica” per colpire l’italianità e slavizzare nostre terre annettibili. Una terribile tragedia che oltre alla storia dei nostri territori orientali ha segnato anche la nostra storia nazionale sul filo del mai sopito contrasto tra fascismo e antifascismo, tra comunismo e anticomunismo.

Ma perché mai questo Giorno del Ricordo è giunto così tardi, istituito per legge solo nel 2004, quasi 60 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale? Se, immediatamente, nel 1945 il dramma dell’Olocausto fu subito conosciuto, contestualizzato dalla scoperta dei campi di concentramento, dalle testimonianze dei sopravvissuti, dal riscontro degli orrori nazisti, la vergogna delle foibe carsiche fu, invece, volutamente soffocata da un grande silenzio, lontano dai riflettori della storia e della cronaca politica.
Prima ancora della Shoah la persecuzione dei giuliani-dalmati da parte di Tito, allora vessillifero dell’assurdo sogno dell’internazionale comunista, conobbe subito il negazionismo o un riduttivo revisionismo dei suoi tragici avvenimenti, quasi che foibe ed esodo potessero ridursi solo ad una conseguenza collaterale della Seconda Guerra Mondiale, nulla di più.

Per tutta la Prima Repubblica Italiana sino alla caduta del muro di Berlino nel 1989 l’orrore delle nefandezze di Tito è stato nascosto da una vergognosa omertà storica, frutto di un cinismo nazionale ed uno internazionale: nel primo caso, delle foibe e tutto il resto era stato inopportuno parlare per non tirare in ballo le colpe del PCI di Togliatti nell’assecondare le mire di Tito, l’ambiguità di De Gasperi nel contenere l’esodo giuliano-dalmata, infine il disagio della destra nostalgica, dal MSI in poi, a vedersi ancora addossata la colpa del trascorso regime per la perdita di territori orientali, conquistati col sacrifico della Prima Guerra Mondiale; nel secondo caso, la politica internazionale aveva imposto quella cancellazione del passato, iniziata con la rottura tra Tito e Stalin nel 1948, quindi con la crisi del globale patto d’intesa tra i paesi comunisti.

Solo nella Seconda Repubblica, grazie anche alla nascita di nuovi partiti, ampiamente lontani da vecchie ideologie, un diverso confronto politico ed una rinnovata ricerca storica hanno tolto dal buio dell’omertà la vicenda delle foibe e dell’esodo.
Eppure, ancora oggi, sopravvivono contrapposizioni ideologiche e politiche con l’intento esplicito di confondere, annebbiare il giudizio storico obiettivo che non può essere che quello di un “crimine contro l’umanità”, perpetrato in Venezia Giulia e Dalmazia e pari, nel valore del suo seme di violenza e pulizia etnica, al ben più vasto Olocausto: diversa è la scala di grandezza, ma non quella del significato intrinseco.
I crimini di guerra non hanno colore politico, quindi non possono mai giustificarsi per la collocazione o le motivazioni politiche dei loro autori, restano e sono delitti contro l’umanità.

Solo su questa riflessione, fuori da ogni aprioristica contrapposizione di parti, può fondarsi quella condivisione di valori e propositi che parimenti deve sottendersi a ricorrenze come la Giornata della Memoria e il Giorno del Ricordo.
Perché mai, fra l’altro, distinguere due occasioni celebrative, comuni, invece, per la difesa di valori dell’umanità e della storia? Non ha senso, significa solo evitare una riflessione che vada oltre, superando l’antagonismo tra antifascismo e fascismo, il confronto tra antisemitismo e antitalianità giuliano-dalmata.

Distinguere una Giornata della Memoria da un Giorno del Ricordo significa alimentare un distorto uso pubblico della storia ovvero cercare in ciascuna delle due ricorrenze motivi, spunti per continuare a screditare il proprio nemico politico: nel Giorno della Memoria ambienti di destra vedono un’esaltazione dell’antifascismo di sinistra, vigliaccamente dimentico dei gulag sovietici contro ebrei e dissidenti; nel Giorno del Ricordo settori della sinistra vedono un’inopportuna concessione ai neofascisti di rialzare la testa.
La storia, dunque, piegata a giustificare una vicendevole delegittimazione!
Non è proprio il valore educativo della storia, così efficacemente espresso da Cicerone con il suo historia magistra vitae!

Franco D’Emilio