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All’ITI Marconi la conferenza sugli Internati Militari Italiani

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Che fine fecero i soldati del Regio Esercito italiano all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943? A tale quesito, posto ad un’attenta platea di studenti dell’Istituto Tecnico Tecnologico “Marconi” di Forlì (cinque classi, fra cui tre quinte), ha dato risposta Roberta Ravaioli, ex dirigente scolastica oggi in pensione, nel corso di una conferenza, tenutasi sabato 6 febbraio, che ha suscitato grande interesse tra gli intervenuti.

In base alle stime più attendibili – ha detto Ravaioli – circa 700 mila soldati italiani finirono nei campi di concentramento in Germania, Polonia e Ucraina, perché si rifiutarono di combattere con i tedeschi o con la neonata Repubblica di SalòFurono chiamati Internati Militari Italiani – ha proseguito la relatrice – una denominazione che sarebbe stata coniata, stando a quanto risulta, addirittura da Hitler in persona. In base a tale definizione, i nostri militari non ebbero la possibilità di usufruire di alcun aiuto da parte della Croce Rossa internazionale, e gli ufficiali non godettero nemmeno della facoltà di potersi rifiutare di svolgere lavori (tra l’altro per quello che era ormai divenuto un nemico) praticamente senza compenso, se si eccettua una brodaglia calda una volta al giorno, a fronte di un impegno quotidiano di ben 12 ore“.

La curiosità ha fatto sì che le domande fioccassero copiose sia da parte dei ragazzi che da quella dei professori Donatella Rabiti e Maurizio Gioiello (che hanno organizzato l’incontro), a partire dalla più scontata: perché questo interesse della relatrice verso gli IMI (acronimo di Internati Militari Italiani)? “Diversi anni fa – ha raccontato con emozione Roberta Ravaioli – ho trovato in casa due cartoline, assieme ad altro materiale, scritte nel 1944 da mio zio Mario, classe 1911, richiamato alle armi nel 1940. Ho chiesto ai miei familiari qualche informazione in più e, così, ho scoperto che il fratello di mio padre era stato ucciso nel campo di concentramento di Hildesheim, in Germania, nella primavera del 1945, quasi alla fine del secondo conflitto mondiale. Da lì sono iniziate le mie ricerche, prima all’Ufficio Anagrafe del Comune di Forlì, poi al Distretto Militare e infine all’Archivio di Stato. Dai documenti che nel tempo ho rintracciato è nata la mia tesi di laurea che poi si è trasformata in un libro“.

Altra domanda d’obbligo: perché decidere di non continuare a combattere al fianco di fascisti e tedeschi, una scelta che avrebbe comportato condizioni di vita decisamente peggiori? “Per completare la mia ricerca, realizzata più di vent’ anni fa – ha spiegato Ravaioli – mi sono avvalsa delle testimonianze orali di tanti reduci dai campi che, a differenza di mio zio, sono tornati a casa. Tutti su questo punto erano d’accordo: non volevano più combattere con i tedeschi o con fascisti e il loro unico desiderio era quello di ridare la libertà all’Italia. Per questo, la scelta di non schierarsi costituiva una vera e propria forma di resistenza. Mi piace ricordare che solo il 10 per cento dei soldati e il 30 per cento degli ufficiali scelse l’opzione contraria“.

Il momento che ha generato il maggior pathos tra gli alunni (che si sono anche prestati a leggere alcune testimonianze toccanti) è stato quello in cui l’ex dirigente ha ricordato con tono accorato “la fame, soprattutto, e poi il freddo, le malattie e per finire le umiliazioni che i nostri connazionali hanno patito”.
Da ultimo, Ravaioli ha ricordato con soddisfazione l’intitolazione di una rotatoria a suo zio, Mario Ravaioli (il cui corpo non è mai stato ritrovato), a Collina, paese in cui abitava. Un modo per tenere desta la memoria non solo di una persona ma, più in generale, di un episodio del recente passato ancora poco studiato e analizzato (nella foto da sinistra Maurizio Gioiello, Roberta Ravaioli e Donatella Rabiti).