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I primi giorni di maggio e le tradizioni popolari dimenticate

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Maggio, con i suoi 31 giorni, è il terzo mese della primavera che entra in questi giorni nella sua fase di massimo fulgore effetto della crescente esposizione alla luce solare, che raggiungerà l’apice nel solstizio d’estate (21 giugno). Di conseguenza le giornate si allungano e il clima è decisamente più mite. Questo periodo aveva ed ha una grande importanza per tutte le attività che si svolgono in campagna.

L’elemento centrale era la Terra, intesa come Madre Natura e identificata con la dea Maia
evidenziano gli studiosi Radames Garoia e Nivalda Raffoni (nella foto) – dalla cui radice latina, Maius, si pensa possa essere derivato il termine “maggio”. Il Calendimaggio (o cantar maggio) traeva il nome dal periodo in cui aveva luogo, cioè l’inizio di maggio ed era una celebrazione stagionale che si teneva per accogliere festosamente l’arrivo della bella stagione, il ritorno alla vita e alla rinascita.
Era una tradizione che affondava le sue origini nei riti propiziatori primaverili – continuano i due esperti – con i quali si cercava di entrare nelle grazie del creato “par avé un bon arcolt” (per avere un buon raccolto) e quindi sottrarsi alla miseria. Festa pagana, risalente ai popoli dell’antichità molto integrati con i ritmi della natura, quali i Celti e gli Etruschi, presso i quali l’arrivo della bella stagione rivestiva grande importanza. Il rituale magico-propiziatorio di questo cerimoniale era svolto durante una questua, nella quale, in cambio di doni (solitamente uova, cibo, vino e dolci), i protagonisti, detti anche “maggianti” (in alcune zone solo gruppi di ragazze, con il capo ed il corpo decorato di fiori), cantavano strofe beneauguranti agli abitanti delle case che visitavano, ballavano, accompagnandosi con cembali ed altri strumenti musicali.
Nelle strofe delle cante venivano citati i simboli della rinascita primaverile, come i fiori (viole, primule, rose), le spighe del grano che in questi giorni cominciano a fare capolino nei verdi campi, per arrivare agli alberi (betulla, maggiociondolo, biancospino, gelso), ma soprattutto la pianta dell’ontano, che cresce lungo i corsi d’acqua ed è considerata il simbolo della vita.
Durante il Calendimaggio, che poteva durare anche fino a due settimane, ricordano i due esperti, a volte i maggianti oltrepassavano i limiti della festa e spesso si ubriacavano; la Chiesa non tollerava questi comportamenti ritenuti troppo pagani e, per contrastare questa usanza, dichiarò il mese di maggio dedicato alla Madonna, invitando i cristiani a recitare quotidianamente il rosario“.

Le manifestazioni legate al Calendimaggo hanno subito un declino nel corso del 19° secolo, (fino a scomparire dopo la prima guerra mondiale), da un lato per la contrarietà della Chiesa e dall’altro perché il movimento socialista di fine ‘800 dichiarò il primo maggio come festa dei lavoratori.
E del Primo maggio festa del lavoro, noi, figli del dopoguerra, nati e vissuti da sempre in campagna – precisano Radames Garoia e Nivalda Raffoni – abbiamo ben presente (negli anni ’50 e 60) l’esposizione delle bandiere rosse in cima agli altissimi pioppi, o in mancanza di questi, sull’albero più alto della zona. Ricordiamo altresì, la presenza di uno o due incaricati che facevano visita alle famiglie per proporre un garofano rosso a fronte di una piccola donazione. Il primo maggio, divenuto il giorno della festa dei lavoratori con una energica impronta sindacale, aveva finito con l’assumere una forte valenza politica.
Altra usanza, anche questa estinta, relativa ai primi di maggio, era la Maggiolata (“la majé” nel forlivese e la “frasché” nel ravennate), con rituali e contenuti simili al Calendimaggio. Il primo maggio, al mattino, a digiuno, si raccoglievano fiori e ramoscelli di alberi, (ramoscelli di biancospino, pampini di robinia o rami di pioppo), si intrecciavano tra di loro e si legavano alle porte e alle finestre e persino sui tetti delle case. Questa usanza aveva lo scopo di propiziare l’abbondanza dei raccolti – concludono Radames e Nivalda – impedire l’ingresso delle formiche in casa e nascondere loro la via per la dispensa ed i granai. Questo straordinario potere era attribuito in particolare ai rami di pioppo, perché, sempre secondo la credenza popolare, di questo legno era costruita la croce sulla quale era morto Gesù“.
A ricordare la tradizione de “La Majé”, si ricorda una bellissima canta scritta nel 1910 da Aldo Spallicci (1886-1973), musicata da Cesare Martuzzi (1885-1960), ed eseguita per la prima volta a Monte Maggio di Bertinoro e che fa parte del repertorio musicale delle corali romagnole. Di questa, si riportano le prime tre strofe:

La majê
Dop un sonn ch’un fneva mai,
la campagna la j è ‘d festa
e e’ mi gal, alzend la cresta,
l’ha cantê: chirichichi!

Tu la rama, la piò bëla,
strapa i fiur ch’i t’piis a te,
spiana coma par un re,
al finëstar dla mi cà.

Tu la bdola, la pió bëla,
strapa i fiur ch’i t’piis a te,
che al furmigh al n’ha d’antré
a magnêr int la mi cà.

L’invarnêda la j è fnida,
mo l’è vnuda dl’étra neva,
chl’a n’ha cvert ét che la seva,
l’è e’ spén bianch ch’l’è tot fiurì.

Gabriele Zelli