statistiche siti
4live Logo 4live Logo

Leggilo in 14 minuto

9 novembre 1944: i soldati tedeschi fuori Porta Schiavonia

img of 9 novembre 1944: i soldati tedeschi fuori Porta Schiavonia
Ultimo aggiornamento:

Ieri nella Sala Don Bosco della Parrocchia dei Cappuccinini piena in ogni ordine di posto e con persone in piedi, sono stati presentati il libro “1944: il passaggio del fronte dai diari e dalle memorie dei parroci di Barisano, Malmissole, Poggio, Roncadello, San Giorgio“, curato da don Antonino Nicotra, parroco dell’Unità Pastorale delle stesse località, da Mario Proli, storico, e da Gabriele Zelli, cultore di storia locale, l’omonima mostra fotografica e il film-documentario “1944: Noi c’eravamo”, a cura di Fabio Blaco.
Il libro e la mostra ricostruiscono i momenti salienti e drammatici del passaggio di fronte, durante il Secondo conflitto mondiale, nelle stesse località del forlivese ai confini con il territorio ravennate, mentre il filmato contiene le testimonianze di 14 residenti nei luoghi citati che hanno raccontato cosa ricordano di quel drammatico periodo. Il tutto è stato presentato in occasione del 9 novembre, 75° anniversario della Liberazione di Forlì dall’occupazione tedesca, e in particolare della ricorrenza del 13 di novembre, giorno che segnò la ritirata delle truppe di occupazione anche dalle zone sopracitate.

In quelle date, infatti, la 278° Divisione di Fanteria tedesca si ritirò oltre il fiume Montone incalzata dalle truppe alleate. Finì così la “Battaglia di Forlì” iniziata il 25 ottobre. I tedeschi lasciarono sul campo 700 uomini morti, infliggendo, comunque, perdite più rilevanti alla 10° Indiana e alla 4° Britannica, come scrivono i curatori del libro nella prefazione. Tutto intorno si contavano ancora i lutti (circa 2.000 dal 1939), 2.200 case erano state fortemente danneggiate o distrutte dai bombardamenti e dai cannoneggiamenti, la fame e la miseria imperavano. Anche le fabbriche e le attività artigianali erano bloccate, con molti siti produttivi danneggiati dai bombardamenti, che conservavano ancora i macchinari grazie alla resistenza delle operaie e degli operai.

Nel luglio 1944, i tedeschi avevano messo in atto un piano per trasferire in Germania i macchinari delle più importanti fabbriche forlivesi e deportarne gli operai. Si stava già attuando il trasferimento della “Caproni” di Predappio. Commissioni militari tedesche si presentarono nelle principali fabbriche forlivesi per censire i materiali e le macchine da asportare. Gli operai seguendo le direttive delle commissioni aziendali clandestine, dopo aver strappato agli industriali un anticipo di due mesi di salario, abbandonarono il lavoro, mentre gruppi di operai e di partigiani della S.A.P. (Squadre d’Azione Patriottica) provvidero a smontare i pezzi essenziali delle macchine e a nasconderli. Le macchine, divenute inservibili, furono bloccate ai basamenti mediante il ribadimento dei bulloni. Di fatto il piano del nemico non poté essere attuato se non in minima parte. Nella motivazione per il conferimento alla città di Forlì della medaglia d’argento al valor militare della Resistenza verrà esaltata, in particolare l’azione dei lavoratori che impedirono il trasferimento in Germania degli impianti industriali.

La ricercatrice Raffaella Biscioni nel saggio: “Protezione antiaerea e bombardamenti a Forlì (1940-1945)” annota che sebbene “colpite duramente dai bombardamenti e dalle asportazioni tedesche le industrie del forlivese riuscirono nel giro di pochi anni a rimettere in piedi la produzione; per esempio l’Eridania, ebbe danni ai fabbricati, ai serbatoi di melassa e ai macchinari elettrici, ma fortunatamente l’impianto per l’estrazione dello zucchero era in buono stato, e alcuni macchinari elettrici e il gruppo elettrogeno si salvarono dalle asportazioni, oppure l’Orsi Mangelli che riuscì a riaprire lo stabilimento nell’aprile del 1948, apertura salutata dalla stampa comunista come il successo del sacrificio degli operai della fabbrica che diede alla lotta partigiana “eroi purissimi, che con dimostrazione di massa è insorta contro i massacri di renitenti alla leva, e che occultando i macchinari e materiali preziosissimi ai nazi-fascisti, ha contribuito in grande misura alla ricostruzione del paese”. In effetti una parte innegabilmente importante della veloce ripresa della fabbrica si doveva al fatto che operai e dirigenti avessero lavorato per mettere in salvo macchinari e pezzi di ricambio; una squadra di venti operai organizzò l’occultamento dei macchinari smontati e conservati in casse di legno riposte all’interno di una vasca piena di acqua dello stabilimento della S.A.O.M. o depositate in un magazzino di proprietà della famiglia Mangelli nei pressi di Carpinello (l’essiccatoio del tabacco in via Vincenzo Brasini). Così come la centrale elettrica che già minata dai tedeschi fu smontata “pezzo per pezzo”, nascosta e poi rimontata dagli operai per ottenere nell’immediato dopoguerra energia elettrica per l’acquedotto, gli ospedali e i mulini di Forlì”.

Insomma alla popolazione forlivese e non solo si prospettava nell’immediato una vita di stenti. Restò la speranza, una indicibile voglia di vivere e tanto bastò per ricominciare.
La liberazione di Forlì è stata raccontata da testimoni oculari e storici. In analogia a quanto pubblicato nel libro i curatori, don Antonino Nicotra, Mario Proli e Gabriele Zelli, nella prefazione hanno scelto di riportare quanto scrisse in “Memorie storiche della chiesa dei Romiti” alla data del 9 novembre 1944, un altro parroco, don Emilio Gezzi della parrocchia dei Romiti, perché da il senso del fronte che oltrepassa la città e simbolicamente viene varcato il ponte di Schiavonia (il ponte fu distrutto dai tedeschi in ritirata nella notte fra l’8 e il 9 novembre).

Dal diario di don Emilio:
9 novembre – Gli alleati prendono possesso di Forlì. Nella notte del giorno 9 novembre una ventina di soldati tedeschi entrano nella Canonica dei Romiti sfondando la porta d’ingresso. Alle ore 4.30 è fatto saltare il ponte di Schiavonia. Per tutta la notte i tedeschi minacciano di cacciare di casa l’Arciprete. Alla mattina seguente, col pretesto che l’Arciprete difendeva i partigiani, nello spazio di dieci minuti (erano le ore 10.00), viene cacciato dalla Canonica e obbligato a lasciare la chiesa aperta. Trovandosi in mezzo alla strada e non sapendo dove rifugiarsi (in città era impedito il transito per la caduta del ponte e per l’occupazione dei partigiani e degli Alleati) si avvia per la strada di Villagrappa fermandosi nella casa colonica, attigua alla chiesina delle Passere, di proprietà di mons. Rambelli.
11 novembre – Gli alleati, avendo saputo che i tedeschi occupavano la Canonica dei Romiti, hanno lanciato alcune bombe che sono cadute a pochi metri dalla Canonica rovinando il muro esteriore dalla parte del campo.

13 novembre – Dopo la partenza dei tedeschi, l’Arciprete rientra in Canonica e trova un mucchio di rovine. Mobili spezzati e sovrapposti come in una barricata; i viveri e gli indumenti saccheggiati ed asportati; la chiesa profanata; qui i tedeschi avevano compiuto le azioni più ributtanti ed incivili. Degni emuli degli Unni!… Il loro passaggio sarà eternamente ricordato con raccapriccio e con sdegno. Si è poi saputo che, vestiti sacrilegamente con indumenti sacri, si recavano per la strada e nelle case vicine in uno stato di completa ubriachezza. Parte degli indumenti sacri furono poi ritrovati sulle rive del fiume, nelle trincee e parte dispersi. La chiesa era stata trasformata in una cucina e peggio ancora… in un gabinetto, usando le tovaglie dell’altare. La chiesa era rifornita di molta cera: non fu trovata neppure una candela. Nella sala, tra i rottami, furono rinvenute tre bombe inesplose ed in un armadio un ordigno pure inesploso. Tutti gli oggetti, carte, libri, erano stati appositamente dispersi nelle diverse camere della Canonica. La radio fu ritrovata sulla mensa dell’altare maggiore. Queste, le prodezze… compiute dal secolare nemico della nostra Italia, con la compiacente adesione dei fascisti aderenti alla cosiddetta repubblica di Salò”.

Le truppe alleate entrarono a Forlì nella mattinata del 9 novembre accolte dall’entusiasmo popolare di cui le pagine del diario di Antonio Mambelli offrono una colorata rappresentazione: “Dai rifugi sono sbucati cantando, gridando come pazzi di gioia, uomini, donne, vecchi e fanciulli, a muovere incontro ai liberatori, su cui, in qualche punto, sono stati gettati petali di crisantemi. Molti gli abbracci e i baci … mentre il comando occupa il palazzo Littorio (Palazzo Albertini) che subito si adorna della bandiera britannica e americana. I membri del Comitato di Liberazione Nazionale, presieduto dal dott. Toldo, unitamente al Sindaco Franco Agosto – fabbro e già segretario della Federazione comunista clandestina, perseguitato, messo in carcere e confinato, ma fermo sempre nei suoi principi – raggiungono la Residenza civica: il Sindaco prende possesso della città e predispone i servizi più urgenti; assumono i loro uffici il Commissario politico Romolo Landi e il tenente Guido Gardini quale comandante la Piazza. I muri sono ricoperti di manifesti degli enti e dei partiti, la gente li scorre con avidità, sente attraverso quelli di essere tornata libera, eppure crede di sognare, scorda per un attimo i lutti, le rovine che ancora fumano, le stragi che l’inorridiscono: il giorno a lungo atteso è venuto, ora si può anche morire”.

L’entusiasmo fu ben presto smorzato da un ennesimo attacco delle artiglierie tedesche dislocate oltre il fiume Montone perché la battaglia di Forlì, come già accennato, non terminò il 9 novembre. Gli storici hanno raccontato che quella sera il generale Harry Hoppe ricevette la visita del suo comandante superiore, il generale Trangott Herr, che gli intimò di resistere perché Adolf Hitler si era infuriato nell’apprendere come la “città della giovinezza del Duce” fosse caduta così facilmente nelle mani del nemico e aveva ordinato una difesa a oltranza. Hoppe manifestò il suo sconcerto perché in precedenza, quando potevano resistere, gli ordinarono di ritirarsi e nella fase di ritirate gli si chiedeva di resistere. Ovviamente ubbidì e per altri cinque giorni la 278^ combatté alla periferia di Forlì.
A un mese esatto dalla liberazione vi fu un ultimo attacco tedesco che riaccese il clima di disperazione. Il 10 dicembre 1944 come annotò Mambelli: “Quattro apparecchi tedeschi uno dei quali è stato colpito dalla contraerea precipitando in fiamme verso Bastia, hanno compiuto poco dopo l’ave un’incursione sulla città con conseguenze disastrose. La prima bomba, come le altre, di straordinaria potenza, ha interamente demolito la chiesa di San Biagio, la canonica, il campanile e parte dell’attiguo monastero di clausura… una seconda è caduta nella casa Seganti in via Maldenti; abbattendosi nella cantina senza esplodere; tre persone vi sono morte; una terza inesplosa, è caduta nello stabilimento Orsi Mangelli; una infine ha causato la distruzione totale del palazzo Albicini, in borgo Ravaldino; di gran parte dei contigui delle famiglie Merenda, Prati Savorelli, Dall’Aste, Viroli, Dalle Vacche… i morti sono stati numerosi…”.

I continui scontri militari dell’autunno 1944, i devastanti bombardamenti e cannoneggiamenti aumentarono a dismisura il numero dei morti e soprattutto quello dei feriti, ricordano don Antonino Nicotra, Mario Proli e Gabriele Zelli. Si decise allora di attivare un nuovo ospedale per supportare l’attività del “Morgagni”. Ecco come ricordò quella fase don Pietro Garbin parroco dei salesiani e della parrocchia di San Biagio in San Girolamo: “ Un giorno, sulla fine di settembre 1944, sorge a Forlì un nuovo ospedale. Un nuovo ospedale?… E’ possibile?… Di questi tempi e con questa scarsezza di mezzi?… Ma non scarsezza di bisognosi! Sì, è per questi che sorge… Un ospedale dedicato a San Giovanni Bosco, dedicato a colui che fu l’assertore, l’animatore, l’esecutore di tutte le forme di carità, non è una cosa nuova. Ma questo di Forlì, che spunta quando altre opere di filantropia tramontano, che sorge in momenti di estreme difficoltà e di estreme necessità, che si affaccia prima che fossero compiuti due anni dalla venuta dell’esiguo pugno di salesiani in questa città, ha del sorprendente. Sembra un sogno impossibile, eppure è vera realtà”. A dimostrazione che “Se si semina un chicco di grano nasce del grano; ed è normale”.

Sull’attività dell’Ospedale “Don Bosco” è significativo il resoconto di Michelangelo Patroni pubblicato nel volume: “Un di lontano – Cinquant’anni di vita salesiana a Forlì”, a cura di Giovanni Tassani, Edizioni Filograf, Forlì 1992, in particolare quando sottolinea che d’intesa col Commissario Prefettizio, con la Prefettura, con il presidente dell’Onb e il suo segretario Domenico Bandoli, il Sacerdote don Pietro Garbin, visto che in tutti i rifugi cittadini, e negli istituti trasformati in campi per sfollati si trovavano donne, bambini, ammalati, sofferenti, constatato che l’ospedale civile non poteva accettare che i casi più gravi, viene nella deliberazione di fondare un ospedale per profughi di cui assume la direzione e l’amministrazione.

Gli ammalati erano accuditi dal personale sanitario: il dottor Pio Pantaleoni della CRI, il dottor Minucci, e più tardi, cioè nel mese di novembre, anche dal prof. Gino Laschi, primario radiologo di Bologna, i quali tutti prestavano servizio ininterrotto e gratuito; tutto il personale infermiere e di fatica scelto e addestrato fra la popolazione degli sfollati, i sacerdoti addetti alla parte spirituale, e il direttore amministratore don Pietro Garbin, le suore infermiere e di cucina tra le quali va nominata suor Eleonora che fu la prima organizzatrice del servizio domestico; e suor Gisella Marchiol che con le quattro altre consorelle, dopo il crollo dell’asilo a Villa Pianta, prese la direzione di tutto il movimento del personale, prestavano servizio gratuito, mossi solo dal precetto di Gesù Cristo: “Qualunque cosa farete a uno di questi sofferenti lo riterrò fatto a me”.
Vanno ricordati pure e con riconoscenza i proff. Ugo De Castro, Mario Loreti, Luigi Barchi, i quali aderirono all’invito di prestarsi gratuitamente per visite e consulti. Anzi il prof. Loreti chiamato a Forlì si prestò per l’operazione ulcero gastrica del degente Capannari sopperendo alle spese tutte, comprese quelle del viaggio.

L’Ospedaletto fu molto aiutato dalla carità pubblica, specie in generi in natura, per cui nel periodo di occupazione che durò praticamente due mesi – ottobre e novembre 1944 – pur persistendo l’impossibilità di approvvigionare, ai degenti nulla mancò.
Al mantenimento di circa 120 persone dell’ospedale, come viene ricordato nel libro “I giorni che sconvolsero Forlì. 8 settembre 1943 – 10 dicembre 1944” di Marco Viroli e Gabriele Zelli, Società Editrice Il Ponte Vecchio, 2014, occorreva latte, carne, verdura, tutte cose che sul mercato non si potevano trovare per due motivi: perché il pericolo non lo permetteva e perché specie il bestiame, era soggetto alla razzia tedesca né più né meno che per gli uomini!

E allora come fare? L’autorità non esisteva più o meglio era disautorizzata e di impossibile accesso, quindi per legittimare almeno con un “titolo colorato” gli ordini, il direttore dell’ospedale Don Bosco fece dei decreti… per salvare il bestiame. Fu così che egli poté salvare il bestiame di Villa Pianta del Sig. Flamigni, del Sig. Bondi, e di altri proprietari, facendolo recapitare con evidente pericolo ai diversi Istituti. Fu così provvidenziale, perché non solo fu salvo il bestiame, ma giovò ai malati e ai non ammalati… Negli ultimi giorni, quando le granate fioccavano a centinaia nella zona di San Biagio, il sotterraneo dei locali “Don Bosco” diventarono corsie dell’ospedale, rifugio del personale e di alcuni vicini che non si sentivano l’animo di resistere in casa propria. Quante volte abbiamo dovuto portare a spalle cinquanta, sessanta ammalati dal primo piano al sotterraneo fra pianti e grida. Erano scene veramente pietose. Ancor più pietose quando, e questo si ripeté per sei o sette volte, qualche ammalata, per lo più giovane, perdeva il senno per lo spavento, e veniva temporaneamente ricoverata al “Don Bosco” in attesa di essere trasportata alla casa di cura di Pesaro”.

Queste situazioni continuarono ad esistere per diversi mesi. Solo nell’aprile 1945, quando il Secondo conflitto mondiale terminò, i forlivesi tirarono un sospiro di sollievo ma non dimenticarono quanto era avvenuto nei mesi precedenti, concludono i curatori del libro don Antonino Nicotra, Mario Proli e Gabriele Zelli.
Siccome dai fatti narrati sono passati 75 anni occorre conservarne memoria, perché come scrisse Marco Tullio Cicerone (106 a.C. – 63 a.C.): “La storia è testimonianza del passato, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita”. Ed è per questo che le iniziative programmate per il mese di novembre 2019 dall’Unità Parrocchiale di Barisano, Malmissole, Poggio, Roncadello, San Giorgio e dai Comitati di Quartiere delle stesse località, come la stampa di questo libro, la realizzazione di una mostra fotografica e di un film-documentario, a cura di Fabio Blaco, che raccoglie le testimonianze di 14 residenti nelle frazioni citate, servono per far conoscere alle nuove generazioni cos’è avvenuto in passato affinché non si debba ripetere.