Start-Romagna-a-Forlì

Start Romagna, azienda operante nel settore del trasporto pubblico, ha bandito un concorso per la copertura a tempo determinato di un posto di “Capo Unità Organizzativa Contabilità e Bilancio: si lavora solo per 12 mesi, poi disoccupato, chissà se con qualche tutela, ma sicuramente fuori dalla poltronaggine retribuita dal reddito di cittadinanza.
Comunque, quello proposto è un lavoro di responsabilità, importante nell’ambito della complessiva gestione della società, quindi è più che giusto che ai candidati si richiedano requisiti culturali, professionali di un certo spessore e affidabilità.

Se nel sito di Start Romagna si scorrono i requisiti previsti, allora possiamo leggere come si richiedano, innanzitutto, il conseguimento di una “laurea specialistica/magistrale (o laurea del vecchio ordinamento) in discipline economiche aziendali” e, poi, il possesso di “un’esperienza lavorativa aziendale come capocontabile, responsabile amministrativo/a, direttore amministrativo/a o ruoli similari, della durata non inferiore a 36 mesi”.

Niente da obiettare, l’azienda ricerca un utile profilo professionale di giuste conoscenze, competenze ed esperienza. Questi due requisiti, però, fanno a pugni con il requisito richiesto al punto 6 ovvero “possedere una buona conoscenza della lingua italiana”: proprio così, incredibile!
Ma si può ammettere che, in Italia, dopo un quinquennio di studi universitari si riesca a conseguire la laurea a prescindere da una buona conoscenza della nostra lingua?
E, altrettanto, si può ammettere che, sempre in Italia, si possa maturare un’esperienza professionale di responsabilità in un livello medio/alto senza avere una discreta disponibilità d’uso dell’italiano?

È il minimo che una persona, laureata e professionalmente esperta, formatasi nel nostro sistema scolastico, sappia, conosca la lingua nazionale.
Non possiamo, soprattutto non dobbiamo mai dimenticare che la nostra lingua, come espressione della nostra identità nazionale, è lo strumento espressivo delle nostre idee, attività, relazioni, insomma del nostro complessivo mondo politico, economico e sociale.
A chi, però, mi richiama come con la realtà comunitaria dell’Europa, la caduta delle frontiere e le migrazioni abbiamo acquisito nuovi cittadini, un tempo stranieri, spesso dotati di titoli universitari riconosciuti, ma di minor agilità linguistica nell’italiano, ebbene a costoro replico come, da sempre, i rapporti tra ospitato ed ospitante siano regolati dal criterio della reciprocità: chi viene in Italia deve conseguire una conoscenza dell’italiano, rispondente agli obiettivi che legittimamente vuol raggiungere, al pari, quindi, di quanto chiesto agli italiani, tanti e di valore, ancora oggi emigranti in tante nazioni, a volte di lingua davvero particolare.

Dunque, solo inutile la richiesta di Start Romagna di un buon italiano perché deve darsi per scontata, implicita una buona conoscenza dell’italiano da parte di chiunque, italiano o no, voglia inserirsi in attività, pubbliche o private, dei nostri territori: diversamente si compromette un valore identitario e culturale del nostro paese.
Resta, invece, terrificante che italiani non conoscano bene la propria lingua dopo anni di studio sino alla laurea o anni di lavoro, almeno 3, in posti direttivi di responsabilità; la verità è una sola, tragica: in Italia conferiamo lauree pure ad “analfabeti di ritorno”, quindi rischiamo di affidare posti aziendali importanti a zucche italiote.

Questo fallimento, questo rischio derivano dall’ordito largo del sistema di valutazione sia dell’università sia del sistema scolastico medio inferiore/superiore: sì, i meritevoli, per fortuna, progrediscono, si formano, spesso con livelli di eccellenza, ma nulla evita che l’immeritevole, pur con stentata mediocrità e a calci in culo, lo stesso si laurei e pretenda di far valere il tanto sospirato “pezzo di carta”.
Non c’è persona peggiore di un laureato ignorante e pure presuntuoso, rispetto al quale appare persino sapiente nella sua indifferenza il carducciano “asin bigio, rosicchiando un cardo rosso e turchino” di Davanti a San Guido!

Recentemente ho seguito la stesura di due tesi di laurea, una in sociologia di una studentessa dell’Università di Urbino, l’altra, un figlio di papà, in scienze politiche dell’Alma Mater: della prima, fra i suoi tanti svarioni, ricordo l’avverbio allora scritto “all’ora”, terribile!; del secondo l’espressione “nel momento in cui” orribilmente sfregiata in “nel momento in qui” ed il verbo accudire violentato in “aqqudire”, insomma una tenace conferma!

Entrambi si sono laureati, per fortuna cercano vanamente lavoro! Su Facebook vidi le foto della loro laurea, tutti e due con l’immancabile serto di lauro in testa: lei dall’alto di un tacco 15, forse spillo di un acuto ingegno pedestre; lui nell’aplomb di un doppiopetto, camicia e cravatta grigio perla da matrimonio, forse, riconoscimento inconscio dell’unico progetto perseguibile: impalmare presto una sprovveduta, naturalmente benestante, ma terra terra, lusingata, però, dalle nozze con un dottore. Che altro aggiungere, a questo punto, se non un motivato grido esagitato alla Vittorio Sgarbi: “Capre, solo capre, ancora capre”! 

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