Le ultime tre distinte conferenze sugli usi e tradizioni delle feste natalizie del passato in Romagna, che ho tenuto nel corso dello scorso mese di dicembre, su invito dell’Auser, dell’Associazione “Il Palazzone” di Villafranca e della Libera Università per Adulti di Forlì, hanno innescato molti ricordi nei numerosi presenti. Alcuni di loro mi hanno inviato testimonianze per confermare di aver vissuto nelle loro case, alcune decine di anni fa, alcune delle usanze descritte. Come quella di collocare nel camino della cucina un grande ceppo di legno (E zoch ‘d Nadel) che, dopo essere stato benedetto, veniva accesso e doveva bruciare almeno per tutta la notte di Natale. Alcuni hanno ricordato pure l’uso che gli anziani facevano dei tizzoni, del carbone e della cenere che venivano prodotti dal lento consumarsi del ceppo.
Lo ha fatto anche Gianni Leoni ricordando di essere: “Un “soglianese”; concepito a Sogliano al Rubicone, nato a Rimini, ho abitato a Cesena, ora sto tra Forlì e la Spagna dopo aver girato mezzo mondo per lavoro. Da romagnolo, ho avuto la fortuna di passare la mia infanzia in un’osteria. Si, sono cresciuto tra i vapori di tannino e di sangiovese, tra rabbocchi e “tirate di canna” dalla damigiana alle bottiglie, tra tresette (a Sogliano non si gioca a marafone), briscole, gessetti, lavagne, sigari e trinciati. Dialetto, bestemmie e pezze di rammendi nei calzoni…”.
Nell’osteria, ricorda Leoni, “su un ripiano, tra i mazzi di carte, c’era pure una sveglia. Con quel tipico e incessante ticchettio ritmato sembrerà strano ma era una voce a se stante, presente, che, nei momenti di “stanca” invogliava alla sonnolenza. Sorrido, perchè, io bambino, mi son trovato spesso ad appoggiar la testa sul sussidiario per dormire…, mai solo. C’era sempre l’avvinazzato pensionato che, precedendomi, russava della grossa, dall’altra parte del tavolo lungo dell’osteria.
Non si può arrivare al dunque senza queste premesse, banali, semplici ed incomplete per ovvi motivi, continua Leoni, ricordando che al Foro Boario, dove si è tenuta la conferenza promossa dall’Auser, si è parlato de “Zocch ad Nadel” e, genericamente, dell’uso della sua cenere. “Ebbene, testimonia Leoni, posso confermare che la cenere, quella specifica cenere, frutto del fuoco del Natale veniva, in quel di Sogliano e suoi territori, raccolta, spazzolata e tenuta per poi, con la “guazza” del primo mattino, meglio se rugiada, con le dita bagnate pregne di cenere, i contadini, ma anche i paesani, “segnavano” con la croce le stalle, i fienili e i luoghi degni di protezione “divina”. Mio nonno, “Leoncino”, segnava la cantina del vino e la fossa per il formaggio. Non ricordo, purtroppo, quando questo si facesse, precisa Leoni, in che giorno o in che periodo; non credo, comunque, subito dopo il Natale, più probabile per l’Epifania o forse per Sant’Antonio Abate, ma non sono certo.
A proposito di mio nonno, Leoni Sante, “Leoncino” per tutti, perchè piccolo di statura o, più probabilmente, perchè ultimo di 12 fratelli, usava mettere in una damigiana da 25 litri di vino sangiovese 4 litri di acqua! Perchè, mi disse sempre che il vino di Bernardi di Verucchio e il Braschi di Mercato Saraceno “J è bun una masa, ma j è trop fort par tot qui imbariagot q’ avegn aquè..” (È molto buono, ma è troppo forte per quegli ubriaconi che frequentano l’osteria). Che arte! Che cultura… Si sta perdendo tutto, anzi…
Le storie della “mia” terra e della mia famiglia sono tante, affondano al periodo di Ramberto Malatesta, conte di Sogliano e Signore di Pondo, territorio dal quale molto probabilmente discendiamo noi Leoni, in quanto alla fine del Quattrocento Ramberto Malatesta, durante una visita ai suoi territori, si portò, con se, un certo Leoni Sebastiano mugnaio in Pondo (all’epoca esistevano tre famiglie di Leoni tutti mugnai nel territorio di Pondo). Il Sebastiano ebbe, come incentivo, una casa denominata “Priano”, la prima dopo il castello di Strigara in direzione Sogliano. Su tale terreno, nel Settecento, venne scoperto il carbone, lignite, per l’esattezza con la costituenda miniera del “Capannaccio”, attiva fino agli inizi del 1943. Mia madre, ora deceduta, ricordava benissimo la visita di Donna Rachele, nel dicembre 1940, dalla quale ebbe in dono una bambola di pezza.
A Donna Rachele fu fatto omaggio di ciambella, di piadina e di prosciutto e, ovviamente, sangiovese. La moglie di Mussolini portò in dono agli operai una statua di Santa Barbara, ora sparita ma che, sono certo, è ancora presente da qualche parte a Sogliano. La visita doveva tenersi il giorno di Santa Barbara il 4 dicembre, ma avvenne il giorno dopo causa neve a Verghereto (Rachele arrivava da Roma). Mio nonno, fervente socialista “nenniano”, non fu, ovviamente, contento di quella visita perché Mussolini (e quindi la moglie) era visto come traditore della causa. Inoltre la visita comportò la presenza di gerarchi e di controlli di cui fu oggetto lui stesso nei giorni precedenti. Dovette pure preparare la ciambella, la piadina e tutto il resto.
Donna Rachele, prima di salire su un carro di buoi per raggiungere l’ingresso della miniera, indossò un paio di grossi stivali appositamente portati al seguito; il terreno, per il maltempo era fango e pantano. Per quanto riguarda la miniera oggi, conclude Leoni, un gruppo di cultori di storia locale tra cui Marco Pellegrini (lo stesso del formaggio di fossa), Raffaele Palmi ed altri, da tempo si sono attivati per istituire un museo minerario, se non sulle orme di quello di Perticara, imponente e ricco di materiale, che almeno che ne segua la traccia come storia geologica territoriale”.