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Mario Vespignani: ‘Zirudellaio’ di Forlì e della Romagna

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Ultimo aggiornamento:

Momenti di commozione e di allegria hanno caratterizzato l’incontro che si è svolto con successo sabato 6 febbraio nella sede dell’Istituto Friedrich Schürr di Santo Stefano di Ravenna per ricordare il poeta dialettale Mario Vespignani. Durante il corso dell’iniziativa, coordinata da Radames Garoia, alla quale è intervenuto Davide Drei sindaco di Forlì, sono state lette poesie e zirudelle di Vespignani da parte di Francesco Nardi, Nivalda Raffoni, Oriana Fabbri, Rema Zoffoli, Sauro Mambelli, Rosalba Benedetti, Carla Fabbri e dello stesso Garoia. Claudio Molinari (voce e chitarra), accompagnato da Carlo Guidi (mandolino), ha eseguito alcuni brani musicali con testi dell’autore forlivese, così come hanno fatto la cantante Tina e Mauro Neri.

In particolare Tina ha proposto “Un partigien senza nom” (Partigiano senza nome), uno dei testi più intensi scritti dal poeta, che anche in questa occasione ha suscitato un’unanime coro di apprezzamenti. Nel corso della manifestazione è stato attribuito a Mario Vespignani il premio “Argaza d’arzent” alla memoria, per la lunga e prolifica attività di poeta e autore dialettale. Il riconoscimento è stato consegnato da Carla Fabbri, presidente dell’Istituto Friedrich Schürr, ai familiari di Vespignani, la figlia Mariangela, che era accompagnata da Giuseppe (Pino) Vespignani, fratello di Mario. Di seguito si riporta il testo dell’intervento effettuato da Gabriele Zelli che ha tratteggiato la biografia, il profilo umano, culturale e sociale di Mario Vespignani.

La morte di Mario Vespignani avvenuta a Forlì il 6 ottobre 2015, all’età di 91 anni, ha suscitato profonda commozione e ricordi affettuosi nei confronti di un personaggio che ha dato molto alla sua città natale e alla Romagna, sia per quanto riguarda l’impegno civico, politico, caratterizzato da una forte idealità socialista, e lavorativo, sia per il suo instancabile impegno proteso a valorizzare il dialetto attraverso la composizione di centinaia di poesie e “zirudelle” in vernacolo. Ed è su questo aspetto che soffermerò la mia attenzione per ricordare Vespignani, che è stato per chi scrive un amico e un validissimo collaboratore; ricordo che insieme abbiamo seguito per conto del Comune di Forlì, lui come capo ufficio stampa ed io come assessore, delegati a questo compito dal sindaco Giorgio Zanniboni, l’organizzazione del viaggio di Papa Wojtyla a Forlì nel maggio del 1986.
Daniele Gaudenzi nel volume “Album di famiglia”, edito dalla Filograf nel 1991, ne fornisce un ritratto molto efficace e nel contempo simpatico, in particolare quando scrive che Vespignani era “una figura allampanata, dal colorito sanguigno, lo sguardo buono, pungente e acuto, il sorriso ironico e affabile che gli illumina il volto dal naso imperioso. La sua voce calda e rilassante, di uomo di saggia prudenza, ma sa essere agile, scattante e simpaticamente giovanile allorquando si cimenta nelle varie attività che lo impegnano costantemente”.

Voglio ricordare alcune tappe della sua vita: dopo il diploma di perito elettrotecnico ha esercitato l’attività di camionista in giro per l’Italia dal 1945 al 1960. Fu poi assunto in Comune dove ha ricoperto per dieci anni il ruolo di capo ufficio stampa, essendo iscritto fin dal 1966 all’Albo dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna; per questo nel 2006 ricevette, dopo quarant’anni di attività, una medaglia d’oro. Ha cominciato a scrivere in dialetto all’età di nove anni, quando frequentava la IV elementare a Nettuno, nell’Agro Pontino, dove il padre Matteo (détt Manì), anch’egli camionista, trasportava il materiale per la costruzione di Sabaudia, Littoria e Pontinia, che, “per mantenere la famiglia, come ebbe modo di sottolineare il figlio, ha lavorato tutta la vita in mezzo a tante traversie e tribolazioni e solo al termine dei suoi giorni ha potuto vivere una vecchiaia tranquilla”.

Vespignani sin da adolescente si era appassionato alle “zirudelle” di Gigì ad Savadôr (Luigi Benelli); quest’ultimo era solito fermarsi a declamarle presso le Case Operaie, quelle che si affacciano sull’attuale via Matteotti di Froli dove abitava la famiglia di Mario, suscitando molta attenzione in chi lo ascoltava per la facilità e l’attualità dei testi (A só né int al Ca’ Uparêri / cun davânti di binéri: / u’ e’ sarvéva e’ Marlinô / u’ e’ Tramway cun la Staziô…” – “Sono nato nelle Case Operaie / con davanti due binari: / uno serviva alla Mangelli, / uno al Tramway con la Stazione…”). Di sicuro questi incontri lasciarono traccia nel giovane Vespignani, tanto che egli stesso era solito dire: “Sono nato “zirudellaio” in quanto ho vissuto in un ambiente proletario ed ho colto le espressioni più colorite del nostro dialetto che ho cercato di riportare nei miei scritti”; scritti che fanno sorridere e commuovere, che non lasciano mai insensibili, da uomo che veniva dal popolo e parlava e scriveva per il popolo, con un messaggio di ottimismo, valido e utile più che mai di questi tempi così frenetici e convulsi,  dominati dalle incertezze e dalle inquietudini.

Quello di Vespignani è un richiamo alla semplicità – sono sempre parole di Gaudenzi – un ritorno alle radici genuine dell’essenza romagnola. Un esempio di arguta letizia e di schiettezza. Un esempio in sostanza che molti altri uomini di “lettere” dovrebbero seguire. Vespignani scriveva con grande calore umano e una grande umanità di cui è permeata la tradizione civile della nostra gente“. Sapeva suscitare ilarità quando si lanciava nella declamazione di spassosissime filastrocche, come quella di “Batésta”, scritta nel 1949: “Mè a sô Batésta, / a faz l’elettricèsta, / int e’ mì lavôr a sô un artésta, / a n’ sô mai sté un fascésta. / La mì moj l’è l’Ernësta, / dôna unësta, / mudësta, / l’a j ha fatt séna a la sësta. / E’ mì cugnéd l’è Evangélésta / e’ farmacésta, / quél sè ch’ l’è un fascésta, / anzi un squadrésta, / quânt u j era una rivésta / l’era sempr’ in vésta, / divisa da fascésta, / aquila imperialésta, / l’era e’ chép d’ j avanguardésta. / Un dé ch’ a duvéva andé a una fësta, / andé da la Celësta: / “Celësta, / ch’ u m’ la j imprësta / Evangélésta / l’a camisa da fascésta? ” / “Siv pérs la tësta?  / A vrébb avdé néch quésta!  / Evangélésta / ch’ l’è un squadrésta / ch’ e’ dëga la camisa da fascésta / a un cumunésta! “. / A la sera l’avné una ciòpa ad squadrésta / j m’ dasé dô bòtt int la tësta /e una pôrga indigesta.  / U l’ dgé sôbit l’Ernësta: / cla rôda trésta, / l’è sémpar sté un militarésta”. / Ma quânt l’è andé zô e’ Guéran Fascésta / l’è avnù da e’ pôr Batésta: / “Valà Batésta, / tè t’ cì sèmpar sté un antifascèsta, / t’ cì amigh di cumunésta, / scôri tè, j ha détt ch’ a sô int la lésta, / quì ch’ ilà, s’ j m’ arësta / j m’ fa la fësta / Miga par mè, par la Celësta, / tôtt la nòta la sta désta, / quânt la sént una pésta / l’a dis: “Evangélésta u j è i cumunésta! ” / U l’ dgéva l’Ernësta: / “Làssa ch’ j l’ pésta! ” / Mè invéci a sô un idealésta, / cardénd ad fë’ ‘na côsa unësta / a scuré cun chitr’ antifascèsta / e insé cun i cumunésta / a l’ scanzléssum d’ int la lésta. / Vuei, pr’ un pô l’ha fatt e’ sucialésta / quânt l’ha putù alzé la crësta / u s’ è sgné int i qualunquésta, / adèss l’è d’ arnôv e’ chép di fascésta. / L’aveva rasô’ la mì Ernésta!”.
Vespignani sapeva anche commuovere come quando rievocava la Forlì del periodo del Secondo conflitto mondiale, come in “La paura de’ sergent”: “Par la guëra, sôta e’ frônt, / tè t’ duvivta ëssar prônt / a scapê tôtt i mumênt / par sgaudì i rastréllamént, / quânt j dgéva: “U j’è i tugnì” / u t’ tuchéva scapê vì…”.

La “zirudëla” è un componimento poetico in ottonari a rima baciata generalmente in chiave satirica (“Basta arvì un vucabuléri / par savê ch’ l’è in utunéri / cun la rima ch’ l’è baséda, / sinò l’è…’na grân bujéda”). Per capire la derivazione del nome occorre risalire, con molta probabilità, agli antichi trovadori o trovieri che declamavano le loro poesie nelle piazze accompagnandosi con la gironda, un antico strumento musicale a manovella a tre o più corde. In Romagna, in diversi, si sono distinti durante il secolo scorso nell’arte della composizione di “zirudelle”: da Giustiniano Villa di San Clemente (Rimini) a Massimo Bartoli di Bagnacavallo, da Giovanni Montalti (Bruchin) di Cesena ai fratelli Ugo e Masì Piazza di Faenza, da Eugenio Pazzini di Verucchio ai forlivesi: Giuseppe Pinza, detto “E’ mat ad Pénza”, Dario Paganelli e il già citato Luigi Benelli. Con questo genere di scritti Vespignani ha raccolto numerosi riconoscimenti, tanto che ha vinto o si è sempre classificato ai primi posti nei concorsi di poesia e “zirudelle” di Russi, di Gatteo, della Casa delle Aie, di San Pietro in Vincoli, di Castrocaro Terme, di Cesenatico, di Cervia.

I suoi testi sono raccolti in diversi libri: “E’ bérch” (1977), “E’ Sumar ‘d Scaja (1988), “E’ salut dla mi tëra (2008), “Al mì zirudël (2009), “Quânt u s’ faséva i trébb (2010); in quest’ultimo volume ha raccolto 100 poesie dialettali romagnole lette ai trebbi della rivista “La Piè” dal 1978 al 2008; trebbi che ha organizzato per 18 anni dal 1986 al 2003. Particolare menzione merita quella dedicata alla manifestazione che porta lo stesso titolo del libro: L’éra bël artruvéss a la fé ‘ d mérz / par e’ prém tréb dl’anéda tôt insé, / pr’inviêr i nôstr’incuntr ‘ad puèsì / cun l’amicizia e l’éntusiam ‘ad sémpar. / E prém l’éra ciamé “e’ tréb d’invéran”, abril o maz “e’ tréb ad premavéra”, / e ‘ més ad zôgn l’éra “quél dl’isté” / e pù a setémbar l’ultum “quél dl’autôn”. / L ‘ éra al Quatar Stasô nèca int i tréb / cumpâgna al cânt ‘d Spallicci cun Martôz / che tôta la Rumâgna la canteva /cun al su Camerate ad Cantarèn. / L’éra bël a setémbar salutéss / fasénd j auguri d’artruvéss l’ânn dòp / par i nuv tréb in zir par la Rumâgna, / par anrnuvê sta bëla tradiziô. / Par piô ad sant’én i nôstar “piadarul” / j ha purté avânti e’ spirit ad Spallicci: / l’incôntar cun la zénta dla Rumâgna / int i pôst i piô bél dla nóstra tëra. / Incù tôt quést l’è fnì, l’è fnì par sémpar.

Per la canzone dialettale Vespignani ha vinto per tre anni consecutivi il “Festival E’ Campanôn” di Cesena al quale ha sempre partecipato dal 1973 al 2005 ottenendo, inoltre, due volte il secondo premio e altrettanti “Carlino d’Oro”. Per i racconti è stato premiato al concorso “Usi, costumi e tradizioni della mia terra” di Venezia con un primo posto nel 1976 e due terzi posti nel 1975 e 1977. Col romanzo “Via del Cippo” è stato segnalato al primo concorso, organizzato dal Tribunato di Romagna e dedicato a Francesco Serantini. Il primo gennaio 2010, al Teatro San Luigi di Forlì, la Compagnia comico-dialettale “Cinecircolo del Gallo” ha presentato la sua commedia musicale “E’ brach” (Il mediatore di matrimoni) con musiche di Ely Neri, un altro indimenticato forlivese.
La “zirudela” “Giuffrè”, scritta nel 1957, fu letta, ottenendo un grande successo, durante la cerimonia conclusiva di un Premio Strega, ed è di grande attualità perché racconta la colossale e clamorosa truffa scoperta nel 1958 che vide come protagonista un ex impiegato di banca, Giambattista Giuffrè.

Questo il testo: U j fò un prit che véns da mè / dgénd s’avéva di quatrè, / lò l’avéva un bòn aféri / ch’l’éra un bèl salvadenér: “U j’è un zért cuméndatòr, un di nòstar, un gràn sgnòr, / par che tànt che mè a j daséva / dòp un àn u j rindupiéva”. / L’ éra un fat quési incredébil / cs’èl la banca d’impusébil? / Mè a j imprést e lo j ardòpia, / ma i quatrèn cs’ej dvinté stópia? / Vést ch’a n’s’éra tròp cunvént / dl’intaréss de’ zént par zént / e ch’a vléva al garanzì / l’è sté ilé ch’u s’è istizzi, / a m’so vést ch’u m’bastunéss, / “ch’a sé zénta ch’la n’capéss, / quànt e’ pòpul l’è ignurànt / un n’créd gnànca a e’ bén d’un sànt, / csa cardiv che e’ signòr Giuffrè / l’èpa bsògn di vòst quatré? / Purtij al bànch ch’j n’u v’dà gnit, / non fidéss gnànca di prit, / a gli è ròbi da non credar / cs’a v’cardiv ch’a séma lédar? ” / Mè catolich praticànt / a n’so sté né tànt né quànt, / a j ho dé tòt quèl ch’avéva / l’éra e’ paruch ch’u m’e’ dgéva, / passa un àn, un passa dù / e j carséva i mì migliù, / tót i mis e mì estràt cònt / sénza aver inciun acònt, / j bajòch sémpr j carséva / e che prit e’ fabrichéva, /dòp la Cisa e e’ campanil / l’ha fat nòv néca e’ purzil / e par ogni murajéta una lapida e una scréta: / “Al commendator Giuffrè” / J éra invéci i mì quatré, / ét capì còma ch’j fa / j ti tò miga j ti dà. / A so andé int la sacréstì / tòt i livar j è sparì, / u m’ha dét ch’a stèga zétt / sinò a pèrd tòt i dirétt, / ch’a n’fasivia tànt fracàss / ch’u n’l’impéra qui dal tass. / “Non avì inciuna paura / in chich mòd j sélta fura / avdirì che a pòch a pòch / j v’darà tòt i bajòch !” / Se par chés u n’u m’dà gnit, / me a faz prèst…a ciap e’ prit.

Giuffrè, infatti, accreditato alla Curia vescovile imolese iniziò a raccogliere risparmi presso le famiglie contadine e piccolo borghesi della Romagna promettendo tassi di interesse altissimi, che arrivavano anche al 100%. In realtà Giuffrè non investiva il denaro raccolto in attività finanziarie, ma si limitava a rimborsare gli alti tassi di interesse semplicemente utilizzando quanto raccoglieva da altri risparmiatori. Lo scandalo scoppiò quando un certo numero di “clienti”, sospettando una truffa, iniziarono a chiedere di essere rimborsati, Giuffrè non fu in grado di farlo e gli ultimi entrati nella raccolta persero il loro denaro. Nel processo che ne seguì furono chiamati in causa il ministro delle finanze dell’epoca, il ferrarese/bolognese Luigi Preti, e il suo predecessore Giulio Andreotti.

Vespignani traeva spunto per i suoi componenti dalla vita di tutti i giorni, in particolare della vita di Forlì e dei suoi abitanti, sostenuto in questo da un’esperienza goliardica in quanto esponente dell’allegra brigata della “Cavallona”. Ne è un esempio la zirudela “U n’è mai temp par murì”, scritta nel 1978, sagace e divertente, che doveva essere letta al termine della funzione religiosa in occasione del suo funerale che si è svolta presso la chiesa parrocchiale di Regina Pacis di Forlì.
U n’è bèll murì d’invéran, j t’putréb mandé a l’inféran, / j t’putréb pù nèca dì: / “El e’ témp quèst par murì? ” / Cun e’ fréd e cun e’ giazz / u n’è bèll fé l’ultum viazz; / tot la zénta la t’vé drì / ch’la s’agiazza al màn e i pì. / U n’è bèll a premavéra, / specialmént ilà vérs séra, quànt e’ zil l’è tot fiurì, / u n’è bèll andé a murì, / u j è in zir la fiuridura / t’vù pinsé a la sipultura? / La natura la j arnèss / saréb bèla tè t’muréss! / U n’è bèl murì d’isté / quant l’è chéld e u s’è sudé / a v’ dégh mè ch’u n’gn’è inciù gôst / a murir e’ més d’agòst, / tót la zénta la j è fura / j è partì in vilegiatura, / u n’è séri andé a murì / j duvréb turné d’indrì. / U n’è bèl murì ‘d setémbar, né d’utòbar, né ad nuvémbar, a murì pù par Nadél / j m’ha dét ch’e’ pòrta mél, / l’è una fésta d’aligrì / ch’la n’pò fnì in malincunì, / e pù a la fén dl’ànn / a murir e’ porta dànn. / J m’ha dét néca a Carnvèl / a murir e’ pòrta mél, / castagnôli e la pié frétta / a murir la j è una sdétta. / E’ probléma e’ stà pù in quést: / a murì l’è sémpar prèst, a v’ dégh mè còma e’ stà e’ fatt / par murì u n’gn’è e’ témp adàtt.

Al termine della funzione religiosa sono state lette, invece, “E l’avnirà che dé” e “E mi Furlé”, due testi più in tono con il triste momento. in particolare quest’ultimo è un vera e propria dichiarazione d’amore rivolta alla città natale: “Tôt al matén a végh in piazza grânda / côma s’andéss incôra a lavurê’ / e a m’gôd a stér ilé a guardém d’atôrna: / la töra e e’ campanil d’ Sân Marcuriél, / l’a bëla piazza ch’la j è pina ad störia, / e monumént ad Saffi ilà int e’ mézz. / L’è bël e’ mì Furlé, a né baratt, / par mè e’ méj pòst de’ mônd, sénza cunfrunt: / l’a piazza dagli Urtlân, quéla de’ Chérman, / cun la pörta ad Sân Pir, quéla di Bdôgn, / e’ bôrg ad S-ciavanì, quél ‘d Ravaldino,  / la Ròca antiga ad Cataréna Sfôrza, / l’a Cuntré grânda vsén a l’Ôrt d’ Masini, / e piazèl dla Vitôria e e’ monumént, / i Zardé’ pôblich, e viél dla Staziô’ / e che grân pérch ch’j ha fat avsén a e’ fiù’. / A j ho zirat l’Itaglia in lôngh e in lèrgh / ma un pòst pió bël ad quést a n’l’ho truvé. / Iqué a sô néd e iqué a murirô / cuntént d’avê’ passé tôt la mì vita / tramèz a la mì zènta, ai mì amigh, / int un pòst icè bèl ch’u n’gn’è l’éguél, / tôt un mônd che l’è armast ad déntra ad mè / par utânt’én e piô, séna a la fén”.

La rubrica Fatti e Misfatti di Forlì e della Romagna è a cura di Marco Viroli e Gabriele Zelli.