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La terribile vendetta di Caterina

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Ultimo aggiornamento:

Al termine della giornata di violenze sul selciato delle strade e della piazza di Forlì restavano sangue e brandelli umani. La vendetta di Caterina, che stava per compiersi, questa volta avrebbe raggiunto livelli di ferocia inimmaginabili. Per l’intera nottata la città fu perlustrata da soldati alla ricerca non solo dei membri della congiura e dei loro sostenitori, ma anche di semplici parenti o simpatizzanti. I componenti delle famiglie Ghetti e delle Selle, comprese donne e bambini, furono prelevati da casa e incarcerati alla Rocca di Ravaldino mentre le loro abitazioni venivano date a fuoco.

Don Domenico da Bagnacavallo fu preso e sottoposto a un feroce interrogatorio. Dopo avere affermato che uccidendo il Feo i congiurati credevano di incontrare il volere dei Riario, Raffaele e Ottaviano in primis, ma anche della stessa Caterina, il prete fu costretto a rivelare il coinvolgimento di membri degli Orcioli e dei Marcobelli, due famiglie che, al momento della congiura degli Orsi, avevano aiutato la contessa.

La mattina seguente don Domenico venne legato ai cavalli e trascinato dal ponte dei Brighieri, luogo dell’attentato a Giacomo Feo, alla piazza dove arrivò ancora in vita. Benché fino all’ultimo supplicasse pietà, venne massacrato dai soldati con la spada e con i bastoni e infine appeso per la gola a fianco di ciò che restava del corpo di Gian Antonio Ghetti.
La crudeltà di Caterina si abbatté poi sulle famiglie dei presunti fiancheggiatori, gli Orcioli e i Marcobelli, che furono anch’essi prelevati e rinchiusi nella rocca. Alcuni di loro furono lasciati liberi successivamente, ma condannati all’esilio, molti altri sparirono nel nulla dopo l’arresto.

Per tutto il 28 agosto proseguì la caccia a chiunque avesse avuto direttamente o indirettamente a che fare con i congiurati. I soldati, forti del fatto di avere avuto carta bianca dalla contessa, si lasciarono andare ad atti di inaudita ferocia. Giunsero persino a mozzare il capo al figlio di cinque anni di Gian Antonio Ghetti, dopo averlo trovato nascosto presso una balia.

La mattina del 29 agosto si tennero i solenni funerali di Giacomo Feo nella Chiesa di San Girolamo, sede dei Battuti Rossi, dove i Feo avevano adibito una cappella personale.
La stessa mattina giunse da Ravenna la notizia del ritrovamento e dell’arresto di don Antonio da Valdinoce, meglio conosciuto come don Pavagliotta, l’altro sacerdote coinvolto nell’agguato. Dopo una settimana intera di torture, lo sventurato subì lo stesso trattamento che era stato riservato a don Domenico.

Testimoni e narratori dei fatti di sangue di quei giorni furono come al solito Cobelli e il Bernardi, i quali però, nel timore di urtare la suscettibile signora, nelle loro cronache moderarono parole, tralasciarono descrizioni ed evitarono commenti.
La furia vendicativa della contessa superò per efferatezza gli ammazzamenti di cui era stato protagonista il Babone dopo l’uccisione di Girolamo Riario nel 1488. Addirittura dodici bambini caddero vittima della pazzia omicida di quei giorni, tra questi anche due nipoti di Checco Orsi che erano stati risparmiati nel 1488 e un lattante scannato insieme alla nutrice.

Anche una sola minima collusione o parentela coi congiurati era sufficiente per essere automaticamente condannati a morte. Furono giustiziati Piero Brocchi, per avere fornito la corda a don Pavagliotta per calarsi dalle mura e Giorgio Gobbi, per avere offerto rifugio a don Domenico. Né tanto meno il rancore di Caterina si fermò di fronte a donne, vecchi o bambini. Furono così “giustiziati” gli anziani Bartolo Marcobelli e don Bartolomeo Orcioli, la moglie di Bernardino Ghetti e i suoi tre figli, la concubina di don Pavagliotta, moglie di un ciabattino, con due dei cinque figli avuti dal sacerdote peccatore. La milanese Rosaria, moglie incinta di Gian Antonio Ghetti ed ex prediletta della contessa, venne gettata con i suoi due figli nel pozzo della rocca.

A un certo punto si temette perfino per la vita di Ottaviano e Cesare. Dagli interrogatori infatti risultò evidente la loro complicità diretta nell’assassinio del Feo. Così, quando i soldati, per ordine di Caterina, si recarono qualche giorno dopo a prelevare i due ragazzi, il popolo, compresi i sostenitori degli Ordelaffi, in segno di protesta scortò il drappello armato sin dentro la rocca.

È probabile che Caterina abbia approfittato della situazione per fare piazza pulita di nemici e avversari, che fece rinchiudere, uccidere o allontanò in esilio, impossessandosi dei loro beni, incendiando e radendo al suolo le loro case e ridistribuendo le ricchezze saccheggiate, favorendo la sua stessa famiglia e quanti le erano stati vicini politicamente.

La Rubrica Fatti e Misfatti di Forlì e della Romagna è a cura di Marco Viroli e Gabriele Zelli