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Juan Román Riquelme, l’ultimo “tanguero” del calcio contemporaneo

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“Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Juan Román Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi” (Jorge Valdano)

Da Don Torcuato a La Boca

Il diametro del lauto ventre di Buenos Aires misura, più o meno, la distanza che c’è tra i quartieri Don Torcuato e La Boca. Il primo si trova a nord-ovest e in origine fu il quartiere dell’attività aeroportuale, mentre il secondo si trova a sud, fiancheggiato dal Riachuelo. Il primo è il quartiere che ha dato i natali a Juan Román Riquelme, il secondo quello che gli ha consegnato le chiavi di casa e un ingresso riservato alla storia. Ora, se sul primo si sa poco – quartiere residenziale, abitato soprattutto da dipendenti del vecchio aeroporto – sul secondo si sa, quantomeno, che è il luogo della città che meglio esprime tutta l’eredità della cultura popolare argentina.

È una città dentro la città, dove si respira una storia antica, dove riecheggia il tango tra le case colorate del “Caminito” e dove ha sede la “Bombonera”, vero e proprio tempio del Boca Juniors. Sorta a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quando immigrati italiani – principalmente genovesi – costruirono le prime abitazioni, La Boca è oggi il quartiere più tipico della capitale. Gli abitanti, ancora oggi chiamati “Xeneizes” – deformazione del termine “Zeneizi” che in lingua ligure significa proprio “Genovesi” –  nel 1882, secondo una narrazione storica intrisa di leggenda, fondarono la República Independiente de La Boca issando la bandiera di Genova e costituendo un territorio indipendente dal resto dell’Argentina.

Qui, nei primi anni del secolo scorso, nacquero il River Plate – che trasferì presto la sua sede a Belgrano – e il Boca Juniors, le due squadre più importanti del paese non solo per prestigio internazionale, ma per una rivalità che ancora oggi si distingue per due diversi modi di interpretare il calcio. Juan Román Riquelme, hincha del Boca fin da bambino, debutta nel novembre del 1996 con la camiseta xeneizes, inconsapevole che sarebbe diventato il giocatore più amato della storia del club argentino.

El ultimo Diez

«Se giochi per loro non entri più in casa», gli dirà la madre a seguito di un provino al River Plate. Nato il 24 giugno del 1978 a Don Torcuato da un’umile famiglia di salda fede xeneizes, Riquelme all’età di sette anni viene notato da Jorge Ramirez, un reduce della Guerra delle Malvinas osservatore del Bella Vista, club della periferia nord-occidentale di Buenos Aires. Un bambino magro dalla carnagione scura, incisivi sporgenti e sguardo sempre rivolto in basso, «niente da fare, non vuole venire, è fatto così» gli rispondeva il padre, Ernesto Riquelme, sulla soglia di casa ogni volta che Ramirez veniva a cercarlo e Román correva a nascondersi.

Ma a soli tredici anni vincerà la timidezza e tra le file del San Jorge imparerà a battere i rigori, a dosare i dribbling e a disfarsi più in fretta del pallone. «Non è male, ma bisognerebbe dargli da mangiare», commenteranno i dirigenti della cantera dell’Argentinos Juniors, vivaio da cui qualche anno prima uscì un certo Diego Armando Maradona, incerti se accettare quel ragazzino dall’aria triste e visibilmente sotto peso che, nonostante tutto, una volta in mezzo al campo aveva l’abitudine di parlare e mettere in riga i compagni con una certa autorità. Dopo alcuni anni a “La Paternal”, nel 1996, su pressioni di Carlos Bilardo, il talento cristallino di Juan Román Riquelme approda al Boca Juniors.

La consacrazione simbolica arriverà l’anno dopo, proprio allo stadio Monumental, quando, durante un Superclasíco vinto per 2 a 1 sul River Plate, sostituisce il 37enne Maradona, giunto all’ultima partita da professionista della sua carriera. “El mudo”, chiamato affettuosamente anche “Topo Gigio” dai tifosi de “La 12” – la curva più infuocata al mondo – risponde al calore dei sostenitori xeneizes con giocate prestigiose che hanno contribuito alla vittoria di due tornei di Apertura, uno di Clausura, una Copa Libertadores e una Coppa Intercontinentale vinta in finale contro il Real Madrid.

Sotto la guida di Carlos Bianchi Riquelme ottiene la consacrazione e nel 2001 viene eletto miglior giocatore del continente Latinoamericano. Dopo sette stagioni di successi col Boca Juniors, nel 2002 Riquelme approda al calcio europeo tra le file del Barcellona di Van Gaal, che dirà di lui: «Con il pallone tra i piedi è il giocatore più forte del mondo, ma quando non ha il pallone è come giocare con un uomo in meno». Dopo una stagione deludente passa al Villareal dove, con 15 gol e 11 assist, alla sua terza stagione in maglia amarilla trascina la squadra ad un’inaspettata semifinale di Champions League contro l’Arsenal dal finale amaro, dove Riquelme all’88’ minuto sbaglia un rigore e consegna ai londinesi la finale contro il Barcellona.

“Siempre se vuelve al primer amor” cantava Carlos Gardel in un suo tango memorabile, e dopo il quarto posto con la Nazionale Argentina ai Mondiali del 2006, Riquelme torna al Boca Juniors dove i tifosi lo accolgono con il calore di sempre. Riquelme si mostra fin da subito un giocatore più maturo, meno imprudente nei dribbling e più suggeritore arretrato sulla linea di centrocampo, ma sempre con quel passo cadenzato da “tanguero” che lo contraddistingue. Assieme a Martin Palermo e Rodrigo Palacio forma un reparto d’attacco destinato a rimanere nella storia della squadra e nel cuore dei tifosi, soprattutto a fronte delle molteplici vittorie e del record di trofei internazionali vinti. Le sette stagioni al Boca Juniors, segnate da alti e bassi, per Riquelme sono in realtà l’ennesima consacrazione verso un definitivo riconoscimento romantico de “La 12” nei suoi confronti. Dopo alcuni dissapori con i piani alti della società xeneize chiude la carriera all’Argentinos Juniors, laddove l’aveva intrapresa. Il 25 gennaio 2015, ai microfoni di ESPN, all’età di 36 anni annuncia il suo ritiro dal calcio giocato.

Triste, solitario y final

Per capire Riquelme bisogna appartenere ad una scuola di pensiero calcistica che oggi esiste soprattutto nella letteratura, nella musica, nella danza, nell’arte di strada. Per tutta la sua carriera, Riquelme ha voluto intendere il calcio come una disciplina umanistica. Con l’addio al calcio del talento di Don Torcuato probabilmente finisce davvero l’epoca del “diez”, quello che in una squadra si poteva permettere un passo diverso, simultaneo al suo battito cardiaco. Il fuoriclasse non è per forza la macchina da 40 gol a stagione o il fusto scolpito strappato alla pallacanestro. In un calcio che non è quello di oggi, il fuoriclasse lo si misura dal suo linguaggio del corpo, da come tratta il pallone, da come lo invita a danzare.

La sua persona appartiene al popolo che lo ama, non alla squadra che possiede il suo cartellino. Ecco perché Riquelme, nella sua epoca, è stato un giocatore fuori dal tempo. Quel modo di giocare, un certo “diritto alla lentezza”, rivendicato ogni volta che pareva si muovesse sulle note di un tango di Astor Piazzolla, hanno fatto di lui un giocatore anacronistico. Sia chiaro, meravigliosamente anacronistico. Riquelme non avrebbe mai potuto giocare in un grande club europeo, né avrebbe mai potuto vincere il Pallone d’Oro, ma questa è stata la sua più grande fortuna. L’aver più dato che raccolto, più emozionato che conseguito, più fatto sognare che fatto vincere: di questo dobbiamo essere grati a Juan Román Riquelme. Chi come me non ha potuto viversi appieno l’epoca del “diez”, quantomeno ha potuto godere del suo ultimo frutto. Per questo e tanto altro, grazie Román.