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Paolo Sollier, l’avanguardia operaia della trequarti campo
“Se lo sport non è politico perché viene usato politicamente, proprio confinandolo in una strumentale terra neutra? Se lo sport non è politico, perché il tifo è funzionale al sistema? Se lo sport non è politico, perché è servito ai preti per fare andare a messa i bambini? Se lo sport non è politico, come mai rispecchia fedelmente le scelte politiche del sistema in cui viviamo?” (Paolo Sollier).
È del 1976 “Calci e sputi e colpi di testa”, vero e proprio “diario eretico” di un calciatore anticonformista, che da quel momento in poi divenne meno gradito a chi voleva continuare a farne una caricatura per giornaletti sportivi. Un racconto per impressioni dentro al quale trapelano le domande e le critiche di un “non-calciatore” al limite dell’area avversaria del suo mondo e della società in cui vive. Una narrazione egregiamente sintetizzata nella sua immagine di copertina più famosa, quella utilizzata dall’editore “Gammalibri”, che ritrae Sollier con la maglia rossa del Perugia, barba, capelli lunghi e pugno chiuso ai trentamila del Renato Curi e al mondo, compresi noi, che lo leggiamo oggi con sguardo disincantato. “Fu Gammalibri a volerla. Io non ero d’accordo. E non per il pugno chiuso: perché avevo la faccia ingrugnata. Io non sono così, io rido”.
Paolo Sollier nasce nel 1948 a Chiomonte, in Val di Susa, odierno epicentro della lotta contro la TAV. Basterebbe dare un’occhiata veloce alla sua biografia per accorgersi che non si ha di fronte un “personaggio”, bensì una persona reale, che paradossalmente smette di essere tale se messa a confronto con tutta la galassia di stelle cadenti e filanti del calcio spettacolarizzato. E non è certo un caso che nella marcescenza dei “personaggioni” da rotocalchi che incarnano la “normalità” e i modelli che giovani e meno giovani tendono ad imitare, una persona normale diventi, suo malgrado, un personaggio curioso da indagare. Dovendo riscrivere tutto da principio, inizierei facendolo con una frase, quella di Ernesto Guevara contenuta nel suo “diario della motocicletta”, sul finire del viaggio in America Latina con l’amico Alberto Granado: “Non è questo il racconto di gesta impressionanti”.
Esatto, non è questo il racconto di gesta impressionanti. È il racconto di un ragazzo che da Chiomonte si trasferì presto con i genitori a Torino, alla Vanchiglietta, e dopo aver abbandonato presto la Facoltà di Scienze Politiche, lavorò come operaio alla Fiat Mirafiori. Scrive Sollier “Nel 1969 lavorai otto mesi alla Fiat Mirafiori e in autunno andai a giocare in serie D con la Cossatese. Facevo l’operaio e il calciatore. Entrare negli spogliatoi, indossare maglia e scarpini, significava entrare in un altro mondo. Quello che stava accadendo nella vita di tutti i giorni restava fuori. Poi mi rivestivo, salutavo tutti e tornavo nell’altro mondo.” Era il 1969, e Paolo Sollier conobbe la fatica del lavoro alienato proprio mentre scoppiava l’autunno caldo.
Dalla Cossatese alla Pro Vercelli e da quest’ultima al Perugia, con la quale approda alla massima serie per poi tornare a militare in serie B con la maglia del Rimini. Gli anni ’70 per Sollier sono stati tinteggiati da casacche di diverso colore, ma a far parlare di lui non saranno tanto le quasi trascurabili abilità tecniche, quanto le sue idee fuori dagli schemi e la sua dichiarata militanza in Avanguardia Operaia, organizzazione extraparlamentare della sinistra operaista attiva in Italia dal 1968 al 1978. Di questo Sollier ne parla ampiamente nel suo “Calci e sputi e colpi di testa”, libro che in questi anni suscita parecchia curiosità e non poca repulsione da parte del giornalismo “da parrocchia”. Non solo gli appunti di un trequartista militante, ma una denuncia nei confronti di un sistema in cui anche il calcio è intrinsecamente coinvolto. Da qui, le sue proposte rivoluzionarie in prospettiva di un “calcio altro”, dove si ponga fine ai “presidenti-mecenati” cosicché le società calcistiche entrino nel bilancio dei comuni e i calciatori diventino suoi dipendenti: un modo per ridurre i loro guadagni dando loro in cambio una collocazione sociale a carriera finita. Ma per alcuni Sollier parla troppo e puntualmente viene deferito dalla FIGC. Concluderà la sua carriera laddove aveva mosso i primi passi, alla Cossatese, nel 1985, convinto che le sue idee politiche non avessero influenzato granché il suo ambiente, “un mondo a parte, con i suoi privilegi da difendere e per questo impermeabile alla realtà quotidiana. Ma anche la sinistra ha le sue colpe: a quei tempi considerava lo sport una cosa da qualunquisti, un momento di disimpegno. Giocare a calcio o leggere i quotidiani sportivi era una cosa da cazzari. Peccato, perché alla fine il Sessantotto nel calcio è stato solo una questione di look. Capelli lunghi, barba, baffi e maglietta fuori dai calzoncini. Tutto qui”.
Oggi Paolo Sollier allena una squadra non qualunque, la Nazionale italiana degli Scrittori “Osvaldo Soriano Football Club”, sicuramente la panchina che più gli si addice. Un connubio tra calcio e letteratura in cui, in altri tempi, avrebbe militato sicuramente anche Pier Paolo Pasolini. Scrive ancora e confessa di possedere una collezione di vinili in mansarda. De André, Gaber e Guccini restano inarrivabili, ma non disdegna Offlaga Disco Pax e Lo Stato Sociale. Racconta ancora di quella volta che andò a Parigi con la fidanzata. Il “mago” Helenio Herrera – allora allenatore del Rimini – gli concesse un giorno di licenza in più per le vacanze di Natale a patto che il giocatore riuscisse ad allenarsi almeno una volta. Sollier si trovò ai giardini Lussemburgo, nel cuore della Ville Lumiere, ad allenarsi da solo, quando un gruppo di ragazzini gli chiese di giocare assieme a loro. Un’esperienza, a detta sua, indimenticabile. Questo è il calcio secondo Paolo Sollier. Non è questo il racconto di gesta impressionanti.