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24 marzo 1944: i martiri di via della Ripa

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Ultimo aggiornamento:

“Il 24 marzo 1944, il Tribunale Militare, riunito nella caserma “Ettore Muti”, così si chiamava a quel tempo la caserma che in precedenza aveva portato il nome di “Ferdinando di Savoia”, in via della Ripa, condannò a morte cinque giovani dichiarati renitenti alla leva: Dino e Tonino Degli Esposti di Teodorano, Agostino Lotti di Galeata, Massimo Fantini e Giovanni Valgiusti di Civitella. Un’accusa pretestuosa, figlia di quei giorni orribili, durante i quali un’ondata di terrore stava pervadendo l’Italia occupata dalle truppe hitleriane.
In quelle stesse ore, a Roma, si consumava l’eccidio delle Fosse Ardeatine mentre nella vicina Ravenna venivano uccisi, sempre per presunta renitenza alla leva, altri tre ragazzi.

A Forlì, ricorda il partigiano Sergio Giammarchi nelle sue memorie, quel giorno diversi giovani si erano presentati in caserma per aver ricevuto la cartolina di chiamata alle armi nelle formazioni della Repubblica di Salò. Alcuni di questi, nell’attesa, avevano deciso di andare al mercato ambulante dove vennero fermati da militari e riaccompagnati nella caserma con l’accusa di renitenza e diserzione. Che significava pena capitale. Fu così che montò la rivolta dei forlivesi, in particolare delle donne che manifestarono sdegno e rabbia.
All’esterno la notizia del verdetto si diffuse velocemente e, intuendo l’imminenza di una tragedia, molte donne che abitavano nella zona accorsero all’ingresso della caserma implorando la sospensione della condanna. Nonostante la vibrante protesta, la sentenza venne ugualmente eseguita, nel cortile, di fronte a giovani, militari italiani di stanza, loro pari età, terrorizzati dal comando ricevuto e tenuti sotto tiro da fascisti e da tedeschi, pronti a impedire ogni eventuale iniziativa a favore dei cinque malcapitati.

Questo è il drammatico racconto di quei momenti nelle parole di Sergio Gianmarchi : «Quando arrivarono i cinque ragazzi che erano stati condannati, li misero al muro e diedero i fucili a 12 soldati per il plotone di esecuzione. Ogni soldato del plotone aveva un fascista con il mitra puntato alla schiena. Alle ore 11,15 diedero ordine di sparare, ma i soldati non li uccisero, li ferirono. Gli abitanti in via Ripa, sentendo gli spari e le grida dei ragazzi, andarono alle finestre e sui tetti delle case a protestare. Non ci fu niente da fare, dopo che i soldati avevano finito di sparare, un ufficiale fascista diede il colpo di grazia. L’esecuzione venne eseguita senza che avessero avvertito i familiari delle vittime.
Li caricarono sul camion, li portarono al cimitero senza le casse e per la strada verso il cimitero il camion lasciò una lunga striscia di sangue. Arrivati al Cimitero Comunale, il custode si rifiutò di ricevere i morti senza che fossero nelle casse funebri, perché la legge fascista proibiva che qualcuno potesse essere calato nella fossa senza bara. Allora i fascisti andarono nel negozio delle pompe funebri di Scardovi, li misero nelle casse, per poter procedere alla sepoltura».

La notizia ebbe vasta eco in città, destando profondo sconforto. Nella giornata di domenica molte donne si recarono al cimitero per pregare e deporre fiori sulle tombe dei cinque ragazzi uccisi. Il lunedì, allo scoccare della sirena delle ore 10, le maestranze delle grandi industrie di Forlì interruppero il lavoro. Un corteo di circa duemila persone si mise in marcia e si fermò a protestare contro il vile assassinio sotto la caserma e sotto la Prefettura e per invocare la commutazione della pena inflitta ad altri dieci giovani arrestati sempre per renitenza e già condannati al plotone d’esecuzione. La pena capitale fu commutata in detenzione ma le industrie rimasero bloccate anche il martedì, quando anche molte botteghe restarono chiuse.
A metà pomeriggio, aerei tedeschi sorvolarono la città e lanciarono volantini per convincere i lavoratori a riprendere le attività. Il giorno seguente la situazione tornò alla normalità ma nulla fu più come prima. Di fronte alla barbarie la città, con le donne in testa, non si era piegata e aveva preso una netta posizione”.

Da “I giorni che sconvolsero Forlì” di Marco Viroli e Gabriele Zelli (Il Ponte Vecchio Editore, 2014)
Oggi a Forlì, a testimonianza del barbaro eccidio dei cinque ragazzi, avvenuta venerdì 24 marzo 1944, lo stesso giorno del massacro alle Fosse Ardeatine di Roma, resta una lapide, posta sul muro di cinta dell’ex monastero, lato via Ripa, che reca incise queste parole:
“IL 24 MARZO 1944 / NEL CORTILE DI QUESTO EDIFICIO / FURONO FUCILATI / DEGLI ESPOSTI DINO DI ANNI 22 / DEGLI ESPOSTI TONINO DI ANNI 20 / FANTINI MASSIMO DI ANNI 22 / LOTTI AGOSTINO DI ANNI 22 / VALGIUSTI GIOVANNI DI ANNI 19 /RENITENTI ALLA CHIAMATA ALLE ARMI / DECRETATA DAI TRADITORI FASCISTI / AL SERVIZIO DELL’INVASORE NAZISTA / A PERENNE RICORDO / NEL XXX DELLA RESISTENZA”.
A pochi metri dalla triste iscrizione si trova “La Vergine col Bambino”, affresco dipinto negli anni ’50 del secolo scorso dall’artista forlivese Francesco Olivucci. L’opera fu realizzata per esaudire le richieste delle pie donne del quartiere, ancora profondamente devote alla Madonna della Ripa. Il dipinto di Olivucci, per dimensioni e collocazione, è unico nel suo genere a Forlì.
Purtroppo da qualche tempo quest’opera unica versa in stato di grave abbandono. La copertura in vetro non è stata sufficiente a preservarla negli anni dagli agenti atmosferici e dallo scorrere del tempo che la stanno inesorabilmente cancellando.
Approfittiamo perciò delle righe di questa rubrica per rimarcare che “La Vergine col Bambino” necessita di un intervento urgentissimo. Bisogna fare in fretta, prima che sia troppo tardi.

La Rubrica Fatti e Misfatti di Forlì e della Romagna è a cura di Marco Viroli e Gabriele Zelli