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Ricordo di un capolavoro forlivese perduto: la Cappella Feo

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Ultimo aggiornamento:

Il 10 dicembre 1944, nel tardo pomeriggio di una triste domenica invernale, quando la guerra si riteneva ormai finita per la città di Forlì, già liberata un mese prima dalle truppe alleate, quattro aerei tedeschi (o della Repubblica Sociale), partiti da Villafranca, sganciarono quattro bombe ad alto potenziale, una delle quali colpì la Chiesa Conventuale dei Minori Osservanti, intitolata a San Girolamo. La bomba trasformò in polvere uno dei più grandi tesori della Forlì dell’epoca: la Cappella Feo, affrescata dal grande Melozzo degli Ambrogi, ora conosciuto come Melozzo da Forlì, stimato e onorato alla corte papale, affiancato dal giovane ma esperto discepolo Marco Palmezzano, già famoso e apprezzato nella sua città.

La bomba, che tolse la vita anche a 19 persone, compresi tre bimbi innocenti, distrusse diverse altre opere d’arte e danneggiò gravemente il sepolcro in marmo di Barbara Manfredi, moglie di Pino III Ordelaffi, signore di Forlì, che in quella stessa Chiesa aveva la sua tomba. Tale sepolcro, benché fortemente danneggiato, fu però ricostruito dopo una paziente ricerca di tutti i frammenti e trovò degna collocazione nella navata destra dell’Abbazia romanica di San Mercuriale, una delle più belle chiese forlivesi.

Della cappella Feo, invece, rimangono solo vecchie foto in bianco e nero, più che sufficienti per farci capire quanto grande sia stato il danno subito dalla città di Forlì e dal patrimonio artistico italiano. Le stesse foto, però, sono tristemente insufficiente per darci un’immagine adeguata della grande cupola, dipinta a cassettoni esagonali, sulla cui base erano rappresentati, con un virtuosistico scorcio dal basso, le immagini di otto Profeti, mentre due corone di cherubini festanti, al centro della cupola, circondavano lo stemma nobiliare della famiglia Feo.

Possiamo immaginare la bellezza di questa cupola ammirandone un’altra, molto simile, realizzata dallo stesso Melozzo per una delle sacrestie che circondano la Santa Casa di Loreto: la sacrestia di San Marco splendente di luce e di colore. Altrettanto bella era la lunetta della parete destra, avente come soggetto San Giacomo Maggiore e il miracolo degli uccelli selvatici, realizzata da Marco Palmezzano dopo la morte dell’illustre maestro avvenuta nel novembre del 1494, poco prima della morte di Jacopo (o Giacomo) Feo.

Nella lunetta erano rappresentati lo stesso Jacopo Feo, uno dei giovani capitani di Caterina Sforza e nipote del castellano della rocca di Ravaldino, amante (e poi forse sposo segreto) di Caterina, dopo la morte, per opera di sicari, del marito Girolamo Riario, anch’esso raffigurato nella lunetta. Completa la scena la grande Caterina, astuta e potente Signora di Forlì che aveva voluto e commissionato la cappella realizzata, secondo le sue direttive, unendo le prime due cappelle sul lato destro della chiesa. La composizione, ricca e sapientemente articolata, coi personaggi ben distribuiti nello spazio mostra una sicura padronanza della prospettiva e della costruzione plastica dei protagonisti. E’ un vero peccato che non ci siano copie a colori realizzate da qualche pittore nell’arco di cinque secoli.

Com’era dunque la Chiesa che ospitava questo importante monumento? Era un’opera molto bella, forse la più ricca di Forlì, iniziata nel 1427 e consacrata nel 1433, a navata unica affiancata sui due lati da una serie di cappelle arricchite da opere d’arte di notevole valore, comprendente, oltre a quelle già citate, un prezioso trittico tardo quattrocentesco dello stesso Palmezzano raffigurante la “Madonna in Trono col Bambino e i Santi”, collocato sul primo altare di sinistra e fortunatamente scampato alla distruzione causata dalla bomba.

La navata era coperta con semplici travature in legno ed era preceduta, all’esterno, da un elegante porticato, scampato anche questo alla distruzione, ma poi incredibilmente demolito perché ritenuto stilisticamente incoerente con la nuova chiesa costruita dopo la guerra nel 1952. Nella nuova chiesa, la prima cappella di destra ospita ora un importante dipinto del bolognese Guido Reni, raffigurante l’Immacolata Concezione, realizzato nel 1627, mentre, davanti all’altare, sui gradini del presbiterio, fa bella mostra di se la quattrocentesca acquasantiera in marmo bianco, finemente scolpita, al centro della quale si trova una piccola rana in marmo.