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Testimonianza dell’ex comandante partigiano Giorgio Pettini sul bombardamento di Forlì

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Ultimo aggiornamento:

Nel 2008 Giorgio Pettini, già comandante partigiano nel frattempo deceduto, mi fece pervenire una testimonianza scritta che conservo, nella quale riporta una sua testimonianza sul bombardamento del 25 agosto 1944. Di seguito riporto le parti salienti dello scritto di Giorgio Pettini.

«Don Pippo aveva un coraggio incredibile. Sette giorni dopo l’impiccagione in Piazza Saffi di Corbari, di Iris Versari, di Casadei e del mio fraterno amico Arturo Spazzoli, poco dopo le 9,00 di mattina di un giorno assolato quattro stormi di bombardieri bimotori Boston piombarono su Forlì. Non venivano dal mare come al solito e volavano bassissimi a 2000 metri. Colpirono il centro storico sino alla ferrovia. Fu una strage di cui fui spettatore. Provo a rievocare. Mi trovavo San Tomè a sei chilometri da Forlì. Questa località tornerà altre volte nella tragedia della guerra in Romagna. Vi avrei dovuto essere impiccato il 4 settembre insieme ad altri otto sventurati fra cui quattro ebrei.

Il suo Parroco Don Bruno Bazzoli si offrì come ostaggio per salvare la vita agli innocenti che i tedeschi volevano impiccare per una rappresaglia totalmente ingiustificata. Da dove mi trovavo vidi immense nuvole di fumo nero alzarsi nella direzione del centro cittadino. Non indugiai e corsi verso la città perché sapevo che nella sede del Credito Romagnolo in Piazza Saffi tutti i giorni, bombe o no, mio padre andava a lavorare. Mentre ero appena giunto sotto il loggiato di destra, dov’è lo storico palazzo del Podestà, giunse l’ultima ondata di bombardieri. Vidi Don Pippo in piedi solitario poco vicino al monumento a Saffi raccogliere feriti, con le sue deboli forze. Benedire i caduti, tentare di fermare emorragie. Abbattuto dalle esplosioni si rialzava sempre e correva da un caduto all’altro.

Si era creata da tempo un’inspiegabile consuetudine. Ad ogni allarme aereo chi lavorava o abitava attorno a Piazza Saffi si rifugiava in San Mercuriale nell’assurda convinzione che l’Abbazia non sarebbe stata colpita. Don Pippo mi vide e fece un cenno. Ma potevo solo fuggire perché scomparso l’ultimo bombardiere la piazza si affollò di militari tedeschi ed italiani e di polizia. Dovetti fuggire velocemente perché ero un noto comandante partigiano. Se fossi caduto prigioniero i nazifascisti potevano impadronirsi dei segreti dell’organizzazione oltre che torturarmi ed uccidermi. Mi avrebbero dedicato un altro lampione dopo i quattro su cui vennero appesi i miei amici della brigata Corbari».